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Non me la ricordo mia madre. Le fotografie sono chiuse in un cassetto del comodino nella stanza di papà. Io non ci entro mai e non l'ho mai aperto quel cassetto. Mi pare che fosse bionda, con i capelli mossi. Che avesse seni grandi e labbra carnose. Sarà per questo che preferisco donne more e senza forme, ho una specie di rifiuto. Ma magari mi sbaglio, non sono uno strizzacervelli.

Elisabetta è come lei, bionda, troia e se ne frega del figlio. Scoparla è stato come punire mia madre. Ma mi sento svuotato lo stesso, perché mi sono vendicato di un'estranea. Alla fine non serve a un cazzo, sono e resto un orfano di merda. E loro sono e restano due troie che se ne fregano dei figli.

Me la sono scordata, col tempo. Non avrei mai pensato che un giorno l'avrei rivista. Però è stata coerente: non è tornata per me.


Apro gli occhi e sono sveglio. Sono sveglio come quando ti fai un trip e le pupille si dilatano e il tempo anche, e tutto intorno conta meno di zero; e quando sei sotto effetto trip quello zero è il valore che dai alle cose. Sono sveglio come uno che non sa dove si trova ma ha capito che è nella merda.

«Papà?», provo a chiamarlo.

Mi metto in piedi e la poltrona di pelle in cui sono affondato una notte intera geme, e la mia sagoma lentamente si deforma per svanire. Mi avvicino alla testiera di ferro ai piedi del suo letto e lui è immobile, sembra morto. Ma i tubi, i segnali intermittenti, il macchinario che gli sta incollato addosso con le ventose dicono il contrario.

Ma che lo fisso a fare? Mi sento soffocare, devo uscire da qui, cercare un caffè.

Arrivo sulla maniglia e la porta mi si spalanca davanti.

È quel dottore giovane che lo ha operato, che è calvo e che ha negli occhi una luce rassegnata. Pare uno che sta in mezzo, come in bilico sul filo sospeso tra la vita e la morte. Un giorno salva qualcuno, un altro lo perde. Non lo so se riuscirei mai a vivere come lui. Io la vita la sopporto ma alla morte non ci voglio pensare. Che lo so che poi se ci penso finisce male.

«Buongiorno», dice. «Purtroppo non ho potuto ancora sciogliere la prognosi perché suo padre ha avuto una notte movimentata.»

Parole che mi sembrano assurde: io c'ero, ero qui, davanti a lui e non si è mosso di un millimetro.

«Movimentata?»

Lui non sorride ma è gentile, «Sì, beh, in questa unità di monitoraggio i dati ci arrivano costantemente, li riceviamo nei monitor di controllo della stanza dei medici. Ci sono stati diversi picchi e dobbiamo tenerlo sotto osservazione ancora per un giorno, non lo posso staccare.»

Ci ho capito poco, ma se serve a salvarlo.

Poi attraverso il corridoio, quello dritto, il tunnel di porte e infermieri che passano con i carrelli pieni di garze, termometri, medicine. Stanno facendo il giro dei letti, sono le sette. Portano terapie, misurano la pressione, mi sono informato sulle abitudini di corsia, ho chiesto a una tipa rossa del turno di notte. Me la sarei anche fatta ma a vent'anni ha detto di avere già due figli neonati e ai piedi portava gli zoccoli bianchi e i calzini; e io non posso scoparmi una con gli zoccoli bianchi e i calzini che c'ha a casa due neonati che l'aspettano.

Mi sono perso dentro a questo dannato labirinto e non riesco più a trovare il distributore automatico.

Superato il reparto, alla fine del corridoio, davanti a una porta a vetri che accede alla scala antincendio, lo so perché ci sono uscito a fumare stanotte, c'è una panca lunga addossata alla parete. Ci sta seduta una donna e parla con un tizio. Allungo il passo e le arrivo davanti, non la guardo, mi sto frugando in tasca per cercare le monete, e intanto dico: «Scusate, che sapete dove sta il distributore per i caffè?».

∞ nessuno muore per sempre ∞Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora