Daphne
Quando facevo ancora parte di una famiglia pressoché normale poiché mio padre non si era ancora abbandonato al suo personale sogno egoista, mi piaceva guardarlo scrivere. La maggior parte delle volte, sedendo sul tappeto, appoggiava la schiena al divano sciupato del salone e con una sigaretta accesa fra le labbra muoveva freneticamente la mano su una pagina del suo quaderno che non lasciava mai incustodito. Era un semplice quadernino grigio i cui bordi, a causa del continuo utilizzo, erano rovinati; la sua semplicità andava paradossalmente contro l'importanza quasi maniacale di cui esso era protagonista.
Mentre impugnava la penna e lasciava sulla pagina una scia di parole e di frasi che allora mi erano sconosciute, il viso era contratto in una smorfia concentrata e gli occhi sembravano illuminarsi ad ogni virgola e ad ogni punto. Il fumo gli usciva dalle narici e ogni qual volta la cenere della sigaretta cadeva nel posacenere di ferro vicino ai suoi piedi nudi.Io guardavo quella scena come ipnotizzata. C'era qualcosa in lui che quasi mi convinceva di ritrovarmi di fronte un completo estraneo anziché il mio papà. Era un'energia, una luce e una calma che lo rendevano la persona che non era mai stata e che non sarebbe mai stata. La scrittura lo rendeva felice. Non di quella felicità che a volte manifestava in abbondanza e in modo talmente esagerato da risultare fastidioso. No, quella è la tipica felicità di chi ha cercato per tanto tempo il proprio posto nel mondo e finalmente l'ha trovato.
Il suo posto nel mondo non era in quella casa e in quella famiglia, ma fra quelle pagine. Non era con quella che doveva essere la donna della sua vita né con quella che doveva essere la sua unica figlia, la sua piccola e adorabile Daphne.
Trovava sé stesso e la sua tranquillità nelle parole che spiegavano, presumo, perfettamente i pensieri che lo scuotevano da capo a piedi, che lo rivoltavano, che lo mangiavano e poi vomitavano.
Non nacqui con questa conoscenza, naturalmente, lo appresi col tempo.Quando ero ancora bambina era ovviamente impossibile che riuscissi a capire che non solo non c'era soltanto un pezzo in quel quadro perfetto che doveva essere la mia famiglia, ma non ce n'erano molti altri, talmente tanti da spingere quel quadro a cadere definitivamente per poi iniziare un lungo percorso che doveva avere come ultimo fine la rovina e il deterioramento di tutte le immagini che esso rappresentava. Ancora oggi mi chiedo quale fu il primo pezzo a rovinarsi e l'ultimo a deteriorsi. E chi fu l'artefice di entrambi i fenomeni? Mia madre, mio padre, o l'arte?
Crescendo non mi permisi di odiare nessuno dei tre. Mia madre era tutto ciò che mi restava al di fuori di quella disgrazia. Che fu la morte di mio padre o mio padre stesso la disgrazia poco importa.Per quest'ultimo ci misi tutta me stessa per non disprezzarlo e nausearlo come i peggiori dei mostri. Mi costrinsi, e chissà se feci bene, a consideralo la vittima di sé stesso invece che il carnefice di entrambe.
E mentre mio padre si era fatto abbindolare dalla sua felicità per poi decidere di lasciarla in un angolo buio del suo cuore, mia madre prese le redini di due vite: la vita di una ragazza di ventiquattro anni e quella di una bambina di otto anni.
Dopo un lungo ed estenuante viaggio verso la città in cui saremmo vissute gli otto anni successivi cercai di trovare dei validi motivi per cui l'arte non dovesse essere la mia più acerrima nemica. Eppure chi mi poteva dire che il motivo per cui mio padre era stato portato sul fondo non fosse proprio la forza autodistruttiva del suo talento? Mi risultava impossibile pensare che la colpa fosse della sua stessa famiglia. Era inconcepibile. Invece era più concepibile il fatto che una passione, come la scrittura, capace di tirare fuori ogni sorta di emozione lo avesse sviscerato nel profondo e portato nel grande abisso nero che è la depressione. Forse se non avesse iniziato a scrivere io adesso non sarei qui a raccontare ciò che mi è successo, se quel giorno non avesse preso in mano quella maledetta penna niente di quello che mi porto sulle spalle esisterebbe.
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The age of anxiety
ChickLitDaphne non aveva potuto fare a meno di non notarlo: quei gesti così calmi e quieti la immobilizzavano. Il modo in cui teneva la sigaretta, con cui beveva una birra, con cui sorrideva. Ogni suo gesto trasudava calma, distacco e un certo disinteresse...