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Io Lara ce l'ho nel sangue.

Ma poi. Ma poi torno in me e mi ricordo. Mi ricordo della promessa che ho fatto a suo fratello, della coca che ho rubato e del mafioso che mi farà la pelle quando lo scoprirà. Mi ricordo di mio padre all'ospedale e che, se non è domani sarà il mese prossimo, metterò il culo su quel camion e fine della storia. Allora la lascio. Tolgo le mani, vado indietro con la schiena. Lei deve sposare uno come quel tipo in giardino: con la giacca, il negozio e il dondolo. Lei merita di più.

«Che c'è?», sussurra col fiato ancora corto.

Cerca di tornarmi addosso, la sua mano passa tra i miei capelli, stringe e cerca di avvicinarmi con la forza, vuole la mia bocca, si accorge di non avere più le mie mani a modellarle i fianchi e a scavarle la pelle .

«Che c'è?», ripete.

Ora la spingo indietro con un gesto leggero, senza nemmeno guardarla negli occhi mentre dico: «Dobbiamo andare, questa è una proprietà privata, non possiamo restare.»

Ma sembravo dire: devo andarmene, tu sei troppo preziosa, non ti posso sporcare.

Lei s'incupisce, la smette, forse non sta respirando.

Poi mi colpisce la spalla con un pugno: «Devi dirmi perché! Lo voglio sapere! Perché vai a letto con la prima che capita ma ti rifiuti di stare con me! Perché!».

Afferro la maniglia e spalanco lo sportello, la scanso, me la levo di dosso e smonto. Faccio il giro e salgo al posto di guida. Lei non mi da il tempo di girare la chiave nel blocchetto dell'accensione che mi stringe il braccio e quasi urla.

«No! Non lo farai di nuovo! Stavolta non scappi! Mi dici perché!»

Silenzio.

Sto fissando il volante. La sento respirare. Sento il suo dolore. Non riesco a parlare.

Lei strappa la chiave dal blocchetto e se la stringe nel palmo.

«Non ci muoviamo da qui finché non mi dai una cazzo di risposta vera!»

Silenzio.

Silenzio.

Altro silenzio.

Un minuto. Forse due.

«Allora!»

Dieci secondi.

Lungo respiro.

«Non ti voglio rovinare la vita.»

«Questa è una stronzata! In che modo me la potresti rovinare, sentiamo!»

Le osservo il pugno, «Dammi la chiave».

Lei solleva il braccio. «No! Prima rispondi!»

«Lara, devo andarmene, dammi la chiave.»

«No!»

Le afferro quel pugno con tutte e due le mani per costringerla ad aprirlo ma lei resiste, allora la lascio, non voglio farle male.

Torno con la schiena contro il sedile e chiudo gli occhi. Immobile. I demoni sono tornati.

«Stronzo!»

Ha la voce strappata, mi arriva addosso il mazzo, colpisce in pieno petto.

Mi tormenta, mi spacca in due l'anima ma non posso, non posso.

Infilo la chiave, metto in moto. Parto.

Guido piano.

Sono quasi le sette, l'aria è improvvisamente fredda, la luce è fioca, le punte dei pini si piegano e la strada è deserta. Il primo giorno di settembre, molti sono ripartiti, sono tornati al lavoro, alla loro vita di città, alle loro discoteche il sabato e ai centri commerciali la domenica. Il mare gli ha lasciato addosso l'abbronzatura e con la luce più bassa del cambio di stagione, in città la pelle sembra ancora più colorata e s'abbina ai vestiti con cui da domani sfileranno in ufficio. Io e Lara invece siamo ancora qui, a noi non cambia niente, siamo prigionieri di questo posto anche quando si svuota, diventa inospitale, sul lungomare chiude tutto, gli stabilimenti, le spiagge, i locali, restano aperti solo i ristoranti e la gelateria. E la sabbia si alza nel vento e diventa il velo che acceca e che annebbia l'orizzonte e l'odore della pioggia e dell'autunno ti invade le ossa e ti fa sentire più solo, più inutile. Ma resti inchiodato qui. Io e lei non abbiamo un posto dove tornare.

∞ nessuno muore per sempre ∞Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora