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Questi c'avevano già le idee chiare, beati loro. Noi qui a fa' i poveri, e loro lì a fa' i ricchi.


Cammino veloce lungo la litoranea sotto un sole che cuoce a metà. Ad ogni passo un verso acquoso, una goccia che cade lenta e si asciuga rapida sulle spalle, gli occhi stretti a una fessura per non restare accecato da questa luce che promette deserto. E intanto penso a lei. Si mette a spiare la vita degli altri, le cose che fanno, le piacciono quelli che hanno le candele sul tavolo di vimini e le bottiglie di vino la sera e che se ne stanno a dondolarsi e a baciarsi. Le piace la gente che profuma, che odora di successo, che non si piange addosso. La gente che pare arrivata anche se alla fine siamo tutti sommersi e nessuno è salvo. Vorrei spiegare a Lara che non si tratta di sogni. Chiamiamo con la stessa parola tre cose e nessuna corrisponde alla definizione. 

Sogno: definiamo un sogno quello che facciamo durante il sonno, un sogno quello che ci auguriamo per il futuro e un sogno quello ad occhi aperti quando desideriamo qualcosa. La verità è che la notte la nostra coscienza trasmette messaggi, immagini e vorrebbe che l'ascoltassimo, è un modo per conoscerci meglio e capirci di più; quello che immaginiamo per il futuro è quasi sempre un'ambizione o un proposito e diventa spesso una missione; quello che facciamo ad occhi aperti è solo un rimpianto, spesso è invidia. In nessun caso si tratta di "sogno". Ergo: i sogni non esistono.

Allora quando Lara si tatua addosso che nessuno muore per sempre perché prima o poi si deve ricominciare a credere nei propri sogni, devo pensare che non ha idea di cosa davvero non muore mai. Io l'ho capito: sono le colpe degli altri che restano, perché nessuna di queste muore per sempre, la colpa ricade su di te, si tramanda di padre in figlio, di amante in amato, di sorella in fratello. Ecco cosa non muore: la colpa. Se nessuno la risolve. E io ho deciso di fermare questo disco rotto, non sarò mai in grado di mettere un punto allo spaccio sul litorale, all'egemonia della mala locale, a chi nasce povero in un posto con le sbarre ma la musica la voglio cambiare. Anche se non so ancora come.

Devo guadagnare tempo, trovare un modo per far parlare Gippo. C'avrà pure le amnesie ma qualcosa riuscirò a tirargliela fuori prima che sia troppo tardi.

Come avevo previsto, arrivato davanti alla villa sono asciutto. Di nuovo qui, al cancello che non si capisce dove sta il cazzo di campanello. Ogni volta mi ritrovo a osservare attraverso queste decorazioni di ferro battuto, a cercare all'interno, sul vialetto fiorito, in mezzo alle siepi, all'odore di cloro che arriva fino a qui. Il tonfo dei tuffi e le risate accese mi avvertono che c'è gente, che qui non ci si annoia mai. Riesco persino a intravedere una porzione di Ferrari parcheggiata più in là, di fronte al garage: Luis è in casa.

E allora mi metto a chiamare forte, chi se ne frega, non posso farci la buca.

«Ehi! Pierluigi Macchi! Ehi!»

Un grido che ha interrotto tuffi e tonfi all'istante.

Pochi secondi e lo vedo sbucare con l'asciugamano intorno al collo, a petto nudo e in boxer, i capelli che gocciano e la mano alzata in segno di saluto.

Mi arriva davanti, oltre le sbarre, e fa un verso divertito mentre il cancello scatta per aprirsi.

«Tu sembra che vivi nel medioevo, Rio. Arrivi a piedi, perché non vedo moto, e chiami a gran voce perché non usi il telefono», spalanca la grata e mi fa cenno di entrare, «Ma lo sai quanto tempo sprechi a fare il cavernicolo?».

Ora lo osservo stranito: «Il tempo che passo a camminare mi serve per pensare, per decidere. E tu si vede che sei uno che non pensa abbastanza e che sbaglia più di quanto azzecca.»

∞ nessuno muore per sempre ∞Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora