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" ... le verità cercate per terra,

da maiali,

tenetevi le ghiande, lasciatemi le ali; 

tornate a casa nani, levatevi davanti,
per la mia rabbia enorme mi servono giganti.
Ai dogmi e ai pregiudizi da sempre non abbocco
e al fin della licenza io non perdono e tocco. ..."


Un colpo. Due. Ho ripreso a contarli, non voglio perdere i sensi e questo è il solo modo per restare sveglio.

Le voci mi arrivano in testa sovrapposte, con l'eco: dov'è? Dove hai messo il carico? Rispondi! Dove sta il mio carico! Parla! Vuoi morire? Tu vuoi morire? Dove hai messo il carico? Dove lo hai nascosto!

Sono appeso per le braccia a un gancio e non mi hanno scoperto la faccia, mi picchiano attraverso la tela che copre la vista. È come se le ossa si stessero strappando poco a poco, mentre tutto il peso del mio corpo agonizzante oscilla sotto i colpi inferti. Il peso grava sui polsi legati al gancio e li lacera. Il costato è trapassato da frustate che sembrano scosse elettriche e le gambe non le sento più, forse le hanno tagliate perché mi pare di essere già morto. Eppure annuso in modo insopportabile odore di ferro e ruggine e so che è sangue che scorre e che schizza. Il mio sangue. E sento puzza di carne morta, di cadavere, di bestie macellate.

Un altro colpo. Altri tre. Mi arrendo. Chiudo gli occhi già ciechi e mi lascio andare alla morte.

Slegatelo e tiratelo giù!

Uno scatto, si sgancia, precipito.

Piombo per terra, un pavimento freddo, gelido, come quello di un frigorifero e io ci sono finito di botto, schiantato, morente.

Mi sfilano la tela dalla faccia e riesco a malapena ad aprire gli occhi a una fessura e vedo questo posto, i loro piedi, la carne , siamo in una cella frigorifera con quarti di bue appesi in aria che penzolano. È tutto sfocato, gira, si sgrana. Ho conati, tosse, dolore così intenso e ovunque che non riesco a capire cosa sanguina e cosa è rotto, se mi hanno spezzato qualcosa o no.

Due scarpe vecchie, sporche di terra sulle punte , mi arrivano davanti agli occhi che potrebbero pestarmi la faccia. La voce riecheggia sonora.

«Carusu, nun ti vogghiu ammazzari, semu amici nuatri. Pirò tu devi collaborare, nun mi po' trattare pi chistu manera. Io ti offro la libertà e tu mi ripaghi fottendomi un carico da cento milioni!»

La libertà, dice il vecchio. Mi ha tenuto al guinzaglio per diec'anni e me la chiama libertà?

Non so dove trovo la forza per rispondere ma di sicuro la voce mi esce afona, strappata dal dolore: «Ti ho ripagato. Ho, io ho, saldato, il debito di Haaron. La libertà me la sono guadagnata.»

Scoppia in una risata fina, di quelle isteriche.

Si piega sulle ginocchia e abbassa il viso per guardarmi la faccia schiantata di lato su questo pavimento gelido e intriso del mio sangue e della mia saliva.

Ghigna, «Te l'ho data iu a libertà, nun ti si guadagnato nenti. Picchì nun c'era nenti da ripagare. I soldi di quell'infame di mio nipote li ho ripresi subito, cosa credi, nessuno frega Marascano. Ma tu mi piacevi, eri bravu a arrobbari e ti fici credere chi eri pi debito cu me picchì dovevi continuare a travagghiare pi mia.»

«Bastardo!», mi sforzo di parlare, «Non esisteva nessun debito e tu mi hai rubato dieci anni di vita!»

Ora si mette in piedi e ringhia: «Carusu, nuddu frega Marascano! Nun mi havi fregato Haaron allura, nun mi fregherai tu ùora! Dove hai messo il mio carico!».

∞ nessuno muore per sempre ∞Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora