Capitolo 1

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Diciannove.
Diciannove meno due, diciassette.
I miei anni.
La mia età sottratta alla tua presenza, tutto il tempo nel quale sei mancato. Senza contare il resto della vita che ancora ho da vivere. Ho imparato molte cose,  ho sofferto, ho cercato di respirare. E impensabile mi pare la possibilità di riassumere in alcune righe ciò che la mia esistenza è stata. Ci sarebbe così tanto da dire ... Eppure credo che quei numeri racchiudano tutto, diciannove.
Diciannove meno due, diciassette.
Sta tutto lì, tutto ciò che non sai perché non c'eri.
Diciannove, tra poco venti.
Sta tutto nell'assenza, perché troppo poco è stato il tempo in cui la tua figura mi ha osservata. E maledetto il tempo, maledetto tu, maledetta io. Maledetto tutto ciò che di fittizio c'era e tutto ciò che di reale non c'è mai stato. Se fossi qui, ah se mi vedessi ... Una persona modello, quasi. Proprio uno di quei modelli che a te piacerebbero tanto, retrogradi, bigotti, "a modo" diresti. Proprio l'ologramma di una me che aspetta di divenire tangibile. Proprio la paura del tutto, che soddisfatto ti renderebbe nell'osservare il mio ritrarmi alle emozioni. Se una mano mi sfiora, se un paio d'occhi mi guarda, se le labbra altrui pronunciano un complimento a me destinato diventa tutto arduo, doloroso qualche volta, meglio di no.
Meglio.
Caccio malamente via la mia voglia randagia di essere, nella memoria di qualcosa che a te sarebbe stato gradito. E sono e un po'no, e vivo ma come non lo so. Ho imparato a ridere, a guardare, a respirare di tanto in tanto perché prima non lo sapevo fare. So gioire senza la colpa, non so ancora amare senza il terrore. La foresta si fa meno fitta, meno buia, il sole piano sorge.
E saresti fiero? Mi ameresti? Mi vorresti? Mi riconosceresti? Mi sapresti? E avresti voglia di essere quel vero che mai ti sei sprecato a divenire?
Io sono un po' così, un po' colì, un po' nera, un po' grigia. I miei contorni si distinguono nettamente tra la malavoglia e la negligenza, tra il cominciare e l'assenza. I miei occhi scuri, mediamente grandi. I miei capelli lisci, prima ricci. Ci ho dato un taglio, ai miei capelli. Avevo diciotto anni ed ero in procinto di partire per l'America,  mio nonno in occorrenza alla mia maggiore età aveva deciso di regalarmi un viaggio a New York, che sembra assurdo, quasi da film però è vero. I miei capelli sempre ricci, sempre lunghi, così difficili da pettinare che delle volte dentro alla doccia urlavo dalla rabbia e tiravo via la spazzola. E allora prima di partire li ho tagliati tutti corti fino alle spalle, mia madre dovette uscire fuori dal salone per riprendersi. Tornò ad opera finita con un paio di sandali nuovi, per far tornare su la pressione, erano il suo zucchero. Il mio era invece il poter scuotere la testa e non sentire più un enorme peso sul collo, che leggerezza, mi ricordo ancora limpidamente quella sensazione. Lunghe ciocche corvine sparse per il pavimento beige, colonie di peli ovunque. E dopo venne il viaggio, ma quello si trova narrativamente un po' troppo dopo, si comincia dalla base di consueto. Perciò per amore delle consuetudini mi chiamo Giorgia e sono nata a Palermo, in Sicilia, terra calda, di sole, mare, arance, cielo terso e mafia. Venuta al mondo a Maggio, mese d'estate che a me proprio non piace. Il caldo, il mare e i costumi più di tutto mi spaventano. Perché l'estate libera le inibizioni, sprigiona le energie, mette a nudo.
Il primo ricordo che ho della mia vita è ambientato nella casa in cui sono nata, ne ho una rimembranza vaga. Il bagno buio, fatto di piastrelle scure, le lunghe scale che sembravano potessero non finire mai e i tetti più alti di un grattacielo. Il fatto che avessi poco meno di tre anni avrà certamente influito sulle falsate dimensioni che la mia mente registrava eppure c'era un particolare che mi ossessionava, che osservavo con dedita accuratezza. La tendina della cucina. Adagiata sulla finestra che dava al giardino, quella tendina soprassedeva il lavandino. Gialla, a motivo scozzese verde la ricordo ondeggiare al ritmo del vento, dondolarsi scomposta avanti e indietro coi i suoi due lembi mai a ritmo. E avrei potuto osservarla per ore, appoggiata con le mani al mento sull'enorme isola di cotto che  ingombrava lo spazio centrale della cucina. E mia mamma mi faceva il latte, che mi piaceva tanto e che prendevo nel biberon. E mio padre mi chiamava per giocare con lui, ad un gioco della prima playstation che a quell'età non avrei saputo capire, ma io mi sentivo grande, perché guidavo le macchine nel gioco di papi e a lui stava bene così, forse, spero. E in quei momenti, in quei giochi non ricordo niente di lui, solo la sua sagoma, la certezza della sua presenza, la confortevole sicurezza che lui fosse lì. Come quando ritornava dal lavoro e io pregavo mia madre di dirgli che mi aveva mandata a comprare il pane, nascosta sotto al tavolo ridacchiando rumorosamente, convinta che il mio scherzo sarebbe stato credibile ed esilarante. E una volta saltata fuori dal tavolo mi avrebbe dato il mio ovetto di cioccolato ma una sera non lo fece e questo mi turbò, me lo ricordo, mi dispiacque molto. Ma la vita sarebbe proceduta comunque dopo questo duro colpo e il mio Chicco mi avrebbe di sicuro consolata e supportata in quei momenti difficili, avvolta dall'astinenza di cioccolata.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Jul 23, 2018 ⏰

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