Little, Smart, Scented, Dangerous

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Non ho mai sentito il bisogno di qualcuno accanto a me, ho sempre pensato di essere in grado di gestire tutto da solo e di poter essere indipendente.

Fin dall'infanzia sono sempre stato classificato come un bambino che riusciva ad emergere in qualunque situazione, clinicamente testardo, a tratti egocentrico e piuttosto viziato in fatto di ottenere l'attenzione e l'approvazione altrui, eppure il mio orgoglio non ha mai necessitato di alcun incoraggiamento per continuare ad esistere, sostentato anche dal mio spiccato senso di competitività verso chiunque avesse fatto il mio stesso percorso.

Questi elementi, uniti, diedero origine a colui che, a pochi mesi dal compimento dei suoi vent'anni, si ritrovò a varcare il portone d'entrata di un ufficio troppo grande per potergli diventare familiare, e, con un curriculum ripiegato all'interno della borsa da lavoro comprata per apparire formale in quella prima occasione, si diresse verso la modesta scrivania della segretaria, per chiedere d'essere ammesso al colloquio con il direttore. Fu una trafila, per altro, sufficientemente sbrigativa, un paio di firme ed il mio contratto di lavoro raggiunse fresco di stampa le mani del sovrintendente, d'altro canto prendere il posto di mio padre nell'agenzia in cui per anni era stato lui ad occuparsi di tipiche mansioni da impiegato sottopagato medio era stata una sciocchezza, le mie gambe non fecero in tempo ad abituarsi alla mancanza delle sei ore di scuola seduto ad un banco, che quel banco venne sostituito da una scrivania sempre più vissuta e disordinata, e le giornate tornarono alla monotonia interrotta dalla mancanza della sveglia mattutina che avevo avvertito negli anni dopo la fine delle scuole superiori.

Lasciai l'ufficio colmo di aspettative per i giorni a venire, ed effettivamente gran parte di queste vennero soddisfatte. Raggiunsi un primo stadio di indipendenza totale quando nel giro di un anno (e con qualche aiutino economico dai miei familiari) comprai un appartamento in cui vivere da solo, niente di particolarmente sfarzoso o imponente, ma per un ventunenne e due gatti un trilocale con balconcino vista città era qualcosa di cui vantarsi ai meeting con i colleghi più stagionati e saccenti.

Con il giusto impegno nello stesso periodo in cui impacchettai le mie cose (poche) ed imparai a gestire me stesso totalmente, una promozione bussò alla porta del mio ufficio, ed in men che non si dica mi ritrovai trasferito ad un piano più alto, sia rispetto all'altezza complessiva del grattacielo in cui era collocata la mia sede lavorativa, sia rispetto alle "classi sociali" dei dipendenti, la mia firma sotto i documenti divenne più importante ed il mio nome più vociferato durante le pause mattiniere. Ero giudicato, costantemente, ma non mi sono mai lasciato intimorire da impiegati prossimi alla pensione pieni di critiche verso le matricole e matricole a loro volta invidiose del successo altrui, ho sempre mantenuto la testa alta senza il bisogno di rinfacciare niente a nessuno, del resto la superiorità non è qualcosa che si può imporre, ma qualcosa che si avverte automaticamente, è una risposta senza domanda.

Fu durante la primavera dei miei ventidue anni che il mio intero mondo, schematico ed uniforme nella sua ripetitività giornaliera, venne sconvolto e gettato negli inferi del caos più totale, quando venne a contatto con la più elementare forma di disordine: l'innocenza.

Non potrò mai dimenticare il giorno in cui lo conobbi. Stavo rileggendo per la terza volta una comunicazione attinente ad un rinvio dei giorni di ferie durante la settimana di Pasqua, per sincerarmi che tutto fosse in regola con gli accordi stabiliti, e mentre le parole scorrevano rapide sotto i miei occhi, una voce stridula che troppo bene conoscevo si fece largo nel corridoio del mio piano, per poi, con due colpi secchi, bussare alla mia porta ed entrare prima ancora di ricevere un consenso. Un paio di occhialini rossi come le labbra della donna mi si pararono davanti, e non feci in tempo a chiederle il motivo per cui era venuta a cercarmi, che la segretaria in questione squittì:«È il grande giorno!» sorridendo in preda ad una gioia inusuale per quell'orario così mattiniero. «Oggi?» domandai con poca attenzione, ancora immerso nella faccenda delle ferie, ma il:«L'hai dimenticato?» che lasciò le labbra scarlatte della signora Chan mi fece destare, ottenendo un dissenso come risposta, quindi:«Sarà qui tra meno di un quarto d'ora, metti in ordine queste scartoffie e stringiti il nodo della cravatta, devi insegnargli ciò che tuo padre ha insegnato a te» aggiunse la donna di fronte a me prima di lasciare l'ufficio quasi saltellando nelle sue ballerine nere di cuoio. «Devo insegnargli anche come lavarsi i calzini da solo?» gridai alla donna in tono sarcastico, ma solo l'eco di una risata stridula mi giunse come risposta.

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