Brasileiros (Neymar Jr Fanfiction)

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Capitolo I

Nel bel mezzo del mio sonno fragile, attenta a non muovere un muscolo, aprii gli occhi.
Sopra di me stagliava un soffitto di un meraviglioso color azzurro polvere. Quando decidemmo di rifare la casa, scelsi io il colore per quella stanza. Mi ero battuta per quell'azzurro con mia madre, che desiderava per me un colore più normale: un tristissimo, squallido color crema. Respinsi fermamente la sua imposizione: le dissi che quel colore era vecchio, e monotono.
"Anche il tuo azzurro". 
Con la stessa calma, le spiegai che era opinabile. Ma la camera era mia, non più condivisa con mio fratello.
Steven, che finalmente si era sposato, aveva lasciato la nostra casa per andare a vivere con sua moglie Candace in Australia. Ero felice per lui, ma per uno strano senso di egoismo ed egocentrismo che è celato in me e che non sapevo spiegare, Steven era mio. Mi apparteneva. Da quando avevo 5 anni e lui 9, avevo passato la mia infanzia e adolescenza insieme a quel gruppetto squattrinato di maschi "molto devoti allo studio", come li definiva mio fratello quando era deciso a tagliare corto con il mio uso del vocabolo "secchioni" nei confronti della sua gang, che di una gang aveva ben poco.
L'introversione iniziale nei confronti di un membro più giovane e di un altro sesso, quale ero io, svanì con il passare del tempo: dopo pochi mesi eravamo tutti migliori amici. Giocavamo a quelle poche cose che allora c'erano, riutilizzavamo qualsiasi materiale per creare un gioco stupido ma pieno di significato per noi. Allora sapevamo volare con la fantasia, e i tempi erano diversi. Niente ci era dovuto. Dovevamo imparare a cavarcela da soli e a sfruttare i nostri pochi beni, consistenti in scatole di cartone abbandonate fuori dai portoni, involucri di qualsiasi genere, bottiglie solo ed esclusivamente di plastica, tappi, vecchi cesti di vimini da buttare e, quando eravamo fortunati, tavole di legno ricavate da mobili disadattati. I fogli di cartone venivano utilizzati come slittini sulle scale della città. Ci divertivamo. Tornavamo con le ginocchia graffiate e colanti di sangue, ogni giorno, ma la nostra non era una gioventù bruciata.
Noi preferivamo questo al quotidiano alienarsi davanti ai videogames che caratterizzava la nuova generazione, e che, salvo miracoli, avrebbe caratterizzato anche le successive.
Il fatto che giocassimo con materiali vecchi e da buttare non era perché fossimo in condizioni economiche non proprio agiate (anzi, grazie ad alcune azioni rischiose che andarono a buon fine, eravamo in ottime acque), ma perché i nostri genitori, e soprattutto nostre madre, ci aveva inculcato la cultura del sapersela cavare con poche cose: quelle a disposizione. Niente e nessuno, per fare un esempio, l'avrebbe smossa dalla sua decisione di non cacciare mezzo dollaro per le nostre attività ricreative.
Così, il divertimento genuino che Rio de Janeiro ci aveva offerto per anni, finì quando io e mio fratello compimmo rispettivamente 13 e 17 anni, e ci trasferimmo nello Stato di New York, negli Stati Uniti d'America. Mio padre, statunitense, in seguito ad altri investimenti che gli fruttarono molto, decise che eravamo la nota stonata della città più famosa del Sud America. Come potevano degli agiati come noi vivere con persone tanto diverse? Era questa la domanda che nella sua testa ebbe come risposta "New York". Il suo non era razzismo, era semplicemente molto scrupoloso. L'unica parola che proprio non avrebbe voluto sentire era "ipocrita", e solo perché con le sue ricchezze si permetteva di vivere nella povertà assoluta senza devolvere niente a nessuno.
Papà dettava e detta legge: dopo pochi mesi ci eravamo stabiliti al secondo e al terzo piano di un villino della parte terminale della 72esima est di Manhattan, New York City, a pochi palazzi dall'incrocio con la 5th avenue.
Il nostro appartamento era proprio bello, ma il nostro appartamento a Rio era imbattibile. Era nella città, non nelle favelas, e godeva di una splendida veduta che prendeva tutto il golfo della città: il Cristo Redentore, il Pan di Zucchero, la spiaggia di Copacabana facevano capolino dalla grande vetrata del salone e ci davano il buongiorno ogni mattina. Era una casa meravigliosa, e decidemmo di non venderla, a costo di pagare tutte le tasse più salate che ci avrebbero imposto.
Quel giorno, a un'ora dal sorgere del sole, davo invece il buongiorno ancora una volta a New York a alla settantaduesima est. Smisi di fissare il soffitto, accesi la lucina del piccolo comò bianco e tirai non proprio animosamente le gambe sottili giù dal letto. Dormivo in un letto matrimoniale posto al centro della stanza, il cui rapporto con il mio corpo era almeno 1:5 (io ero l'1). Ero a dir poco sproporzionata e non consona ad un maestoso letto dalla testata in legno intarsiato e vari cuscini soffici sparsi qua e là. Infatti, quando ero in procinto di addormentarmi, lo personalizzavo: via quei cuscini, che venivano sostituiti da uno più rigido e decisamente più comodo, per quel che mi riguardava.
Nonostante lo sfarzoso letto, la stanza era carina e ben organizzata: sulla sinistra c'era la porta dalla quale si accedeva al corridoio. Varcata questa, si accedeva alla mia camera, il cui pavimento era rivestito da un tappeto bianco. Con le spalle al muro, di fronte al letto, c'era un imponente armadio che conteneva il mio vestiario. Esso era composto per la maggior parte da vestiti larghi e di tessuti leggeri, vestiti capaci di risaltare la mia pelle olivastra che avevo ereditato da mia madre, brasiliana. Molto raramente le mie gambe magre e lunghe erano coperte da orrendi pantaloni inguinali di jeans, tanto meno da gonne. Portavo spesso, invece, pantaloni corti di lino. Arrivavano a tre quarti di coscia ed erano adatti a me: non mi ero mai vestita in modo succinto.
Dopo aver fatto bollire il tè ed averne presa una tazza, mi diressi verso il davanzale del finestrone e mi sedetti. Il cielo cominciava a schiarire e l'alba era prossima, mentre New York ricominciava a mettersi in moto con i classici rumori di ferraglia mattutini di saracinesche che si alzavano, meste, lasciando vedere le vetrine dei negozi ancora da riordinare. Negozi, come quello del fioraio, pieni di stand ammassati che ieri sera contribuivano ad affollare il marciapiede pullulante di persone.
Tra i negozianti già pronti da un pezzo, c'era Otto Buhne, il barbiere, all'erta sull'uscio del negozio con le mani conserte dietro la schiena.
Era un uomo sulla sessantina proveniente dall'Europa Centrale, di una nazionalità che non ero stata attenta ad identificare; era grassoccio, stretto nel panciotto e nel gilet come una salsiccia in procinto di esplodere, portava i capelli neri impomatati e i mustacchi all'insù. In particolare, di questi ultimi andava molto fiero. Un vero e proprio oggettino d'epoca, era il barbiere, ma era difficile che risultasse stonato in una città come the Melting Pot.
D'altronde, le cose capitavano per caso. Era per caso che tutti ci trovavamo riuniti in una città. Era per caso, che in quel momento io fossi seduta al davanzale, a guardare fuori.
Ma con la scusa del per caso si sarebbero spiegati fatti che mi sarebbero accaduti dopo un po' di tempo.
E che con il caso non avrebbero avuto nulla a che fare. 

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