SAARBRÜCKEN

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Proprio vero, da bambini la fantasia non ha confini. Immaginavamo di essere dei pompieri e che ognuno con il proprio idrante avesse il compito di spegnere le fiamme che avvolgevano il tronco. Finivamo, con straordinaria sintonia, tutti nello stesso momento e, soddisfatti per aver spento l'incendio, ritornavamo fieri e di corsa a riprendere il gioco che avevamo sospeso.


 Era una mattinata calda. In cortile non c'era ancora nessun bambino. Salimmo in macchina dopo aver messo la valigia nel portabagagli e partimmo immediatamente. Strada facendo pensai ai miei amici; non sapevo se li avrei più rivisti, se sarei mai tornato. Avevo un sacco di domande che mi frullavano nella testa: innanzitutto volevo sapere dove fosse mia madre e come stava; perché non era con noi; poi avrei voluto sapere dov'era la Germania e perché stavamo andando proprio lì... e per quanto tempo. Dove avrei dormito? E con chi?


Io non trovavo il coraggio di aprir bocca, lui guidava e stava zitto. La scatola dei soldatini era con me, la tenevo sulle gambe. Quella era la cosa che mi faceva sentire più tranquillo e meno solo. Ad un tratto mi venne in mente che non avevo portato gli altri giochi: le macchinine, la palla, il Monopoli, il Lego... Come avrei fatto senza? Avrei voluto chiedere di tornare indietro, perché dovevo prendere altre cose, ma rimasi in silenzio. Guardai la scatola, come se lì dentro ci fosse stata tutta la mia vita e fra me, dissi ai soldatini:

 "Per fortuna ci siete voi, altrimenti cosa avrei fatto?"

 Fra tutti i giochi, quello era il più importante; quello che mi consentiva di far vincere chi volevo io e soprattutto, di far prevalere sempre ciò che per me era il bene e non il male!


Dal sedile posteriore guardavo, con la coda dell'occhio, il viso di mio padre che si rifletteva nello specchietto retrovisore. Attendevo una sua piccola espressione, che mi avrebbe dato il motivo di parlare, ma niente, lui non mi guardava. Era attento alla guida e i suoi occhi sembravano scrutare l'infinito, come se avesse avuto una gran voglia di arrivare a destinazione il prima possibile. Era molto nervoso, guidava accelerando e frenando di colpo, sorpassava tutti e suonava il clacson in ogni momento; non mancava anche di urlare qualche parolaccia a qualcuno che non lo faceva passare o che non ripartiva immediatamente quando i semafori diventavano verdi. Continuavo a farmi domande, mi venne anche un po' di paura. Ripensai a mia madre che non c'era e ormai, ero convinto che sarei stato lasciato in Germania, da qualche parte, senza nessuno.

Mio padre continuava a guidare veloce. A ogni curva venivo sballottato a destra e a sinistra. Dovevo tenermi forte al sedile altrimenti rischiavo di picchiare la testa contro il finestrino. Pensai che stesse guidando in quella maniera perché c'inseguivano; mi voltai allora a osservare con attenzione le altre automobili per vedere se ne riconoscevo qualcuna, ma capii che quei pensieri non erano altro che il frutto di una fantasia che si evolveva sempre di più, minuto per minuto, nella mia testa piena di domande senza risposta. Chiusi gli occhi... Zic-zic-zic-zic... Li riaprii immediatamente e l'immagine sparì.

Nel frattempo eravamo giunti nei pressi di Como e vidi il lago. Era bello, di un colore blu intenso. Le montagne attorno erano piene di alberi verdi e molto grandi. Dopo qualche minuto, entrammo in Svizzera; alla dogana non ci fermarono e mio padre, ridacchiando, accennò una frase:

«Ecco... Adesso siamo stranieri!»

Rimasi colpito da quelle parole. Non mi sentivo diverso, mi sembrava di essere sempre lo stesso; dissi tra me che sicuramente c'era qualcosa che non riuscivo a capire in quella frase, ma non parlai, mi sdraiai e mi addormentai.

Una vita da inventareDove le storie prendono vita. Scoprilo ora