LA SOFFERENZA

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Quando ti crolla tutto addosso e ti senti perso, distrutto, inutile, trasparente... Ti gira tutto intorno, ma non vedi nulla; ti parlano, ma non senti neanche una parola; ti chiamano, ma non ricordi nemmeno il tuo nome; respiri, ma ti manca l'aria; hai fame, ma non mangi; hai sete, ma non bevi; hai sonno, ma non dormi... Significa che sei disperato ma, soprattutto, hai appena scoperto cos'è la sofferenza. Però, dopo ogni periodo sofferto avviene subito un cambiamento, proprio come quando finiscono le guerre. Non si sa se in meglio o in peggio ma, quando finisce qualcosa, ne inizia sempre un'altra, questo è sicuro. 



Fui rispedito al mittente dalla famiglia di San Remo.

Mio padre mi rinchiuse in un Istituto di preti, nella zona Sud-Ovest di Milano. Un cambiamento radicale, non c'è che dire; non avrei vissuto più in una famiglia, ma insieme con altri bambini, più o meno tutti nelle mie stesse condizioni: alcuni rimasti senza mamma, altri senza papà, altri senza né padre né madre. Altri invece avevano entrambi i genitori ma, erano separati. A parte i preti e le suore, che erano adulti, sembrava il regno dei bambini!

Le giornate erano tutte uguali: ci si alzava al mattino presto; si metteva a posto la brandina; ci si lavava; ci si vestiva con la divisa a righe orizzontali bianche-blu; si correva di corsa al refettorio, dove le suore distribuivano la colazione e poi, tutti in classe. L'appello si svolgeva in rigoroso ordine alfabetico dopodiché iniziavano le lezioni. Pranzo in mensa a mezzogiorno e dopo un'oretta di riposo e di silenzio, ci si ritrovava tutti nell'ampio cortile o nel campo d'erba, dove c'erano le porte per giocare a calcio. Dopo qualche ora si tornava in classe e si facevano i compiti. Dopo cena si pregava, vicino alla brandina, prima di andare a dormire. L'unico giorno diverso della settimana era il sabato perché non c'erano lezioni e si giocava soltanto; quella sera ci si faceva la doccia e i pochi fortunati, compreso me, potevano indossare gli abiti civili e andare all'ingresso ad aspettare i propri genitori per uscire dall'Istituto e passare la domenica con i familiari.

Mio padre si presentava quasi sempre in perfetto orario a quell'appuntamento settimanale; aveva comprato una macchina nuova e mi portava in giro per la città. Gli raccontavo tutto quello che avevo fatto durante la settimana, anche se erano sempre le stesse identiche cose, e lui sembrava divertirsi ad ascoltarmi e sorrideva. La sera mi portava a casa e mangiavamo insieme. Il giorno dopo mi riportava all'Istituto e così via, per tutte le settimane; per quasi due anni.

All'inizio fu molto difficile abituarmi a quella nuova vita; mi sentivo come un cane abbandonato e figlio di nessuno, però, nel momento in cui sentii le storie di altri bambini che ne avevano passate peggio di me, mi feci forza e cominciai ad adattarmi con più facilità. Ormai avevo la certezza assoluta che la vita era davvero crudele e non guardava in faccia a nessuno. C'era un mio compagno di classe che aveva addirittura perso entrambi i genitori in un incidente stradale. Un altro che era stato abbandonato e non sapeva nemmeno di chi fosse figlio; chiunque lì dentro aveva una storia da raccontare e questo, sicuramente, aiutava un po' tutti a superare i propri attimi di tristezza.

C'erano anche i soliti bulli, i ragazzi più grandi, quelli che facevano vedere di essere forti e che dicevano di sapere ogni cosa sulla vita. Sfottevano in continuazione ed erano molto maneschi, ma bastava star loro alla larga in certi momenti e filava tutto liscio. Ogni tanto mi toccava cedere la merendina a qualcuno di loro piuttosto che rischiare di fare a botte; era un piccolo sacrificio che serviva come stratagemma per vivere tranquillo. Un giorno però, accadde l'imprevisto...

Mentre stavo giocando a pallone mi voltai per caso e vidi uno di quei bulli con in mano la mia scatola dei soldatini! L'aveva presa dal mio armadietto e si stava divertendo a lanciare le mie truppe in aria, come se fossero stati dei sassi! Partii a razzo, lo raggiunsi e cominciai a urlare parolacce. E più urlavo parolacce, più lo menavo, e più lo menavo, più sanguinava... Zic-zic-zic-zic...! Fecero fatica a fermarmi. Dovettero intervenire addirittura i preti e le suore che mi presero di forza e mi portarono in Segreteria. Tremavo: ero arrabbiatissimo, tutto sporco di sangue, anche le mie mani sanguinavano per i colpi che avevo sferrato e impiegai un bel po' di tempo a calmarmi.

Avvisarono per telefono mio padre dell'accaduto e mi portarono in infermeria a curarmi le ferite. Sdraiato sul lettino c'era il ragazzo che avevo pestato; aveva la faccia tutta gonfia e piena di lividi, ma almeno respirava. Tirai un sospiro di sollievo, pensai di averlo ucciso. Quella fu la prima volta in vita mia che misi le mani addosso a qualcuno, ma stranamente non mi sentii in colpa, anzi, ero fiero di aver scoperto di essere forte e di aver difeso i miei soldatini. Peccato che però, non li vidi più da quel momento in poi, perché i preti me li requisirono definitivamente per impormi una punizione esemplare.

Quel fine settimana raccontai tutto a mio padre con calma, anche se ero più che certo che una volta arrivati a casa, me ne avrebbe date talmente tante da mandarmi in ospedale. Invece, non mi toccò nemmeno con un dito. Mi disse che avevo fatto bene a picchiare quel ragazzo, ma che avrei dovuto mantenere un po' di più la calma.

«Bisogna sapersi difendere, ma non bisogna mai perdere la testa!»

Queste furono le sue parole a riguardo. Rimasi sorpreso.

Quando rientrai all'Istituto, tutti i miei compagni si congratularono con me per quello che ero riuscito a fare a quello stupido bullo e da quel giorno nessuno osò più chiedermi la merendina. Ero rispettato anche dai ragazzi più grandi che, all'improvviso, diventarono i miei migliori amici. I preti però non mi vedevano più come un ragazzino calmo e tranquillo; mi tenevano d'occhio da lontano controllando tutti i movimenti che facevo, ascoltando tutto ciò che dicevo ai miei compagni. Anche in classe cambiò qualcosa: cominciarono a spremermi un po' di più nelle interrogazioni e iniziarono ad apparire i brutti voti. A volte prendevo le insufficienze anche se rispondevo bene. Alla lunga riuscirono a esonerarmi dall'Istituto, dando come motivazione lo scarso rendimento scolastico. Mi bocciarono.

Finì anche quel periodo, ma ormai mi sentivo pronto ad affrontare l'ennesimo cambiamento, anche se stavolta con me non ci sarebbe più stata la scatola dei soldatini ad aiutarmi a far vincere i buoni. Mi sentivo più forte, quell'ultima esperienza vissuta mi aveva fatto sicuramente crescere un po' più velocemente. Credevo di non avere più paura di niente, nemmeno delle botte che da quel giorno in poi avrei certamente preso da mio padre, o perché non avrei abbassato immediatamente il volume della televisione appena mi avesse detto di farlo, o perché non avrei messo subito a posto le mie cose una volta finito di usarle, o per qualsiasi altro motivo che lo avrebbe fatto andare su tutte le furie.

Gli incontri di lotta cominciarono prima del previsto. Ero diventato un buon incassatore, avevo la pelle dura. Era come se la mia faccia fosse stata ricoperta di calli: prendevo i colpi, ma non provavo alcun dolore. Lui mi colpiva ed io lo provocavo:

«Dai, ancora! Dai, dai! Tutto qui? Forza! Dai, mettimi ko! Dai...»

E ridevo. Gli ridevo in faccia!

Un giorno cominciò a prendermi a sberle, contandole ad alta voce, una per una. Lui contava:

«Uno!»

Ed io rispondevo:

«Due! Dai...»

E la numero due arrivava:

«Due!»

Ed io rispondevo:

«Tre! Dai...»

E la numero tre arrivava:

«Tre!»

Ed io rispondevo:

«Quattro! Dai...»

E la numero quattro arrivava...

E così via, fino alla quindicesima sberla! Smise perché esausto. Quando mi guardai allo specchio ero tutto gonfio e pieno di lividi, proprio come un pugile.

Una vita da inventareDove le storie prendono vita. Scoprilo ora