LA SOLITUDINE

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Nella lingua comune si utilizzano diversi termini per definire dei concetti. La parola "sole", per esempio, si utilizza spesso per indicare la vita; mentre "ombra", per esprimere il significato di nascondere (qualcosa da nascondere o che si nasconde nell'ombra). In realtà però, l'ombra non può esistere se non c'è sole, quindi mi chiedo, associando il termine "sole" alla parola "vita", la parola "ombra" può rappresentare automaticamente il pensiero della "morte"?

R.D.


Il sole è una palla infuocata e "infuocata" è una parola che fa paura. Il fuoco brucia e trasforma tutto in cenere. Eppure è bello stare sotto il sole, o almeno a me è sempre piaciuto. In estate, nella periferia di Milano, passeggiavo tutti i pomeriggi in mezzo ai campi, attraversando i rigagnoli d'acqua delle coltivazioni e inoltrandomi nei piccoli boschi di faggi e pioppi. Mi piaceva guardare sempre il sole, quella palla infuocata, fin quasi ad accecarmi; la osservavo finché nei miei occhi non rimaneva solo quella luce abbagliante, fissa, che avrebbe impiegato molti minuti a svanire. A volte preferivo stare all'ombra perché faceva davvero troppo caldo. Mi appoggiavo al tronco di un albero e pensavo che l'ombra esiste proprio grazie al sole.

Alla sola età di dieci anni, quasi undici, dopo la morte di mia madre, la storia di Benedetta e le storie che avevo sentito raccontare dai compagni dell'Istituto, avevo già capito che la morte faceva parte della vita, che era la sua conclusione naturale. Sapevo anche però, che nessuno poteva morire senza prima aver vissuto. Non avevo paura di morire, ma ero convinto che prima o poi, durante uno di quei combattimenti con mio padre, dove mi limitavo a prenderle senza mai reagire, ci avrei lasciato le penne. Avrei dovuto cercare velocemente un po' di sole: di vivere, almeno per un po', per un pochino. Un pochino può essere abbastanza se vissuto intensamente. Se in poco tempo riesci a provare certe emozioni, ad avere successo in qualcosa, a imparare ad affrontare certe situazioni. Il guaio era però, che non credevo di avere più molto tempo a disposizione per fare qualcosa che sarebbe bastato a riempire quel pochino. Dovevo fare in fretta!

"Se fossi nato fortunato!"

Mi dicevo...

"Ora potrei avere in poco tempo tutto quello che voglio!"

Poi mi domandavo:

"Ma cosa voglio? Dei nuovi soldatini... dei veri amici... Vorrei la mia mamma! Se ci fosse lei io sarei un figlio vero! Allora, forse, è più importante cosa sei, non quello che hai. Io sono solo, io non sono niente. Cosa voglio essere?" 

(...e non avevo ancora la minima idea di chi fosse Sigmund Freud...)

Cominciai a pensare alla mia vita: appena nato ero una creatura che non faceva altro che dormire, piangere e mangiare. Crescendo, avevo imparato a dire le prime paroline, a prendere in mano gli oggetti, a volere gli oggetti! Mi avevano insegnato a leggere, a scrivere, a parlare. Poi mi erano accadute le cose più strane: era morta mia madre; avevo vissuto con degli estranei e con altri bambini orfani, o quasi orfani. Avevo rischiato di ammazzare un ragazzo... E ora ero lì, sdraiato sull'erba, nell'ombra, a fissare il sole. A pensare che un giorno mio padre sarebbe arrivato persino a uccidermi!

Durante una di quelle passeggiate pomeridiane presi la decisione di scappare da casa; decisi di andarmene il più lontano possibile, fin dove le gambe mi avessero portato. M'incamminai senza più voltarmi indietro. Attraversai campi verdi, grandi, infiniti. Alcuni erano pieni di pannocchie, che non esitai a prendere, per riempirmi lo stomaco. Il liquido che fuoriusciva dai chicchi di mais era davvero gustoso e m'infervorava il palato. Sugli alberi, che facevano da confine a quel territorio, si scuotevano i rami sollecitati dal vento e le foglie, che vibravano come delle farfalle, sembravano delle piccole mani che mi salutavano da lontano. Camminai così tanto che non mi accorsi nemmeno che il sole era già tramontato.

Non sapevo dove mi trovavo; c'era una strada molto grande, nella quale sfrecciavano tante automobili, ma non mi fermai. Ero determinato ad andare avanti fino a chissà dove e la attraversai. Mi ritrovai davanti a un cartello su cui c'era scritto: MELEGNANO. Trovai una panchina e mi sdraiai... ero stanchissimo. Mi addormentai subito. Quando riaprii gli occhi era notte fonda. Faceva freschino, ma non avevo portato niente con me per coprirmi. Mi rannicchiai su me stesso e ripresi a dormire.

Mi ritrovai al Comando dei Carabinieri, dopo essere stato svegliato e caricato in una macchina con dei lampeggianti azzurri. Ero seduto su una sedia e di fronte a me un tipo grasso con dei grossi baffi e in divisa, mi chiedeva:

«Allora, come ti chiami? Che ci facevi al parco stanotte? Da dove vieni? Dove sono i tuoi genitori?»

Io stavo zitto, non volevo rispondere. Quando però, la sua voce cominciò a diventare più minacciosa e lo sentii urlare, spiattellai tutto: nome, cognome, indirizzo di casa e per ultimo, il nome di mio padre. Stavo morendo di sonno, mi si chiudevano gli occhi e a intermittenza, ci mancava solo quello, appariva e scompariva la mia immagine... Zic-zic-zic-zic...

Tutto inutile. La fuga alla ricerca del mio pochino si limitò a quello.

La furia con la quale il mio nemico numero uno si accanì contro il mio corpo quel giorno, si placò soltanto grazie all'intervento dei vicini di casa che, spaventati dalle mie grida, si attaccarono al campanello della porta d'ingresso, minacciando ad alta voce che avrebbero chiamato i Carabinieri se non avesse smesso di picchiarmi.

Per un mese respirai a fatica. Probabilmente mi aveva danneggiato le costole, ma imparai a sopportare il dolore, in silenzio. Rinchiudendomi in me stesso mi sentivo più forte e al sicuro. Come in estate, quando nuotavo nel mare... Io e il mare; io e me stesso; io e il silenzio... Solo.

Una vita da inventareDove le storie prendono vita. Scoprilo ora