⊱ Navy

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qui è blackhairblackdress che vi parla per dirvi che il capitolo che leggerete di resilienza è uscito dalle mie dita lunghe un po' più introspettivo del solito. Spero però che questo non vi metta confusione o tristezza durante la lettura –anche se ne dubito. Detto questo: buona lettura.

[Tell Me by Johnny Jewel]

Park Jimin
—BLU NAVY

I pomeriggi passati insieme erano stati pieni di nuvoloni carichi di pioggia e di un dolce silenzio. Quel genere di silenzio in cui tutti i pensieri tacciono, che non sbiadisce le parole ma bensì i rumori: quelli violenti, quelli che s'insinuano dentro la carne e ti fanno venir voglia di scappare dalla città per rifugiarti in una casetta in cima a un albero che riesce a toccare quasi il cielo. L'orologio si fermava e la paura non ti strisciava più addosso perché Park Jimin parlava,parlava, parlava, e si fermava soltanto per bere qualcosa con zero zuccheri e per accettarsi che negli occhi del suo hyung non ci fosse una briciola di noia. E le sue parole portavano via quelle di Yoongi, quelle vischiose, quelle nere come la pece, e il più piccolo pareva pure contento come un bambino mentre narrava al suo hyung racconti della sua vita, dei pochi divertimenti della sua infanzia e della materia fragile di cui erano fatti i suoi sogni. Cercava sempre di non trascurare alcun dettaglio, descriveva a Yoongi ogni più invisibile sfumatura di quella sua fanciullezza ormai lontana e perduta troppo presto. E allora la memoria del più grande, colma di vita altrui, sembrava cancellare ogni immagine e ogni suono disperato. Anche se in realtà tutto restava sempre lì: all'interno delle vene, sotto la pelle gracile e come febbre ancora corrodeva.

Yoongi si limitava ad ascoltarlo e a osservare, lentamente, la bella curva delle sue labbra che mano a mano spariva per dare spazio a delle lacrime di cristallo che il più piccolo forzava a trattenere in gola. Jimin alzava gli occhi verso il tetto, affondava le unghie sul palmo della sua mano e voltandosi verso Yoongi fingeva un sorriso.

La paura di apparire come un ragazzino fragile dinanzi ai suoi occhi freddi di orgoglio era logorante, non poteva, anzi non voleva essere nuovamente cacciato via dalla sua vita. Ma questo atteggiamento non passava inosservato, la recita di Jimin era evidente anche agli occhi di un povero cieco, e allora il più grande scrutava il suo viso affinché il dolore potesse fuoriuscire dalle sue palpebre. Voleva diventasse pioggia, aghi sottili e affilati contro le sue guance arrossate.

Ed era proprio durante quei momenti in cui Yoongi sentiva una forza primordiale penetrargli nelle ossa, lo stomaco che improvvisamente si faceva stretto e una nausea che lo spingeva ad avvicinarsi sempre un po' di più a quel corpo scarno e cupo. Avvicinare le labbra sulla sua spalla e far sfociare quel pianto puerile sul pavimento della sua stanza e poi, con le dita fredde ancora aggrappate al suo avambraccio, accarezzare il suo volto celato da una continua insoddisfazione. Oh quanto voleva scoprire la reazione di tutti i suoi muscoli a un suo solo tocco. Oh quanto voleva cingergli la vita fino a spezzarlo, fargli male, intrappolarlo in un suo abbraccio e fargli mancare il respiro. Oh quanto voleva farlo, quanto, quanto, ma pensieri come questo volavano fuori dalla finestra non appena nati. Così si limitava ad ascoltare la malinconia nei suoi racconti facendo qualche accenno con il capo quando lui ricercava la sua approvazione.

«hai dello zucchero a velo sull'angolo della bocca»

«ah-»

Non poteva farci nulla, Jimin era un passerotto appoggiato su una finestra degli inferi. Un filo di luce che accarezzava l'oscurità, l'unica violetta su un terreno infernale, era Persefone e lui era Ade. La sua pelle ambrata bramava d'esser toccata in una notte forse eterna, soffocarlo di baci dentro due braccia fin troppo gelide per lui, costringerlo a ingoiare i semi del melograno e farlo restare lì per sempre.

RESILIENZADove le storie prendono vita. Scoprilo ora