Non esistono buoni motivi che possano spingere una persona sana di mente ad alzarsi alle 7 del mattino. Mi scervello, ma davvero non riesco a trovare un solo valido motivo. Ci state pensando anche voi vero? Allora? Esiste?Eppure stamattina sento qualcosa di diverso, è come se avessi una sorta di presentimento che mi urla "Alzati e cammina, oggi succederà qualcosa di meraviglioso!" Così per una volta tanto decido di seguire il mio istino e mi alzo di scatto come se fossi piena di energie e... BAAAM sbatto il piede contro il pc che avevo lasciato sul pavimento stanotte e ovviamente oltre a farmi un male cane sfascio anche lo schermo
"MA PORCA DI QUELLA P...ADELLA!" urlo quando noto il mio fratellino di 4 anni sulla soglia della mia stanza intento ad osservarmi mentre con la mano sinistra stringe al petto il maialino di peluche che gli ho regalato quando è nato e con la destra si stropiccia gli occhietti assonnati.
"Che ti ha fatto quella padella?" mi chiede ingenuamente, e la sua innocenza mi strappa il primo sorriso della giornata.
Quando Gabriele è nato io avevo 16 anni ed ero in quella terribile fase dell'adolescenza dove odi la tua vita, odi i tuoi genitori e pensi che ribellarti sia l'unica cosa da fare, ti fa credere di avere il controllo su qualcosa quando in realtà non riesci a controllare nemmeno i tuoi sbalzi d'umore. Quando i miei se ne sono usciti fuori con la storia "Amore sta arrivando la cicogna!" la prima cosa che ho pensato e che fosse uno stupido scherzo, la seconda (quando ho notato il loro sguardo a metà tra il terribilmente serio e l'impaurito) ho immediatamente minacciato di scappare di casa e ho cominciato a preparare un borsone, ovviamente per scappare di casa intendevo andare a vivere da mia nonna per una settimana per assimilare la notizia mentre lei cercava di consolarmi con il cibo; ho preso 2 chili in una settimana e alla fine, tornata a casa, quella incinta sembravo io e non scherzo!
Nove mesi dopo Gabriele è uscito dal corpo di mia madre ed è entrato direttamente nel mio cuore, non so come spiegarlo: fino ad un attimo prima stavo seduta in quella sala d'attesa indifferente alle urla di mia madre, poi un'infermiera è venuta a chiamarci e ci ha mostrato un'incubatrice e dentro di essa un esserino minuscolo, con una testolina piena di capelli neri e ricci mi ha guardata negli occhi e mi sono sentita come Jacob in breaking down: ho avuto l'imprinting, da quel momento ho capito che l'unico scopo della mia vita era proteggere quel bambino che era un pezzo di me: stessi occhi, stessa anima.
Da quel giorno ho avuto un po' più chiarezza su cosa volevo fare da grande: volevo fare l'infermiera. Volevo essere come quella donna che dava alle persone una delle notizie più belle della loro vita.
Quindi eccomi qui, 4 anni dopo, con un fratellino sempre in mezzo nei momenti meno opportuni e un tirocinio che mi impone di essere in ospedale tutte le mattine alle 7.30 fortunatamente dista solo 10 minuti di macchina da casa mia e io impiego solo 15 minuti a preparami per uscire.Detto, fatto ed eccomi ad inserire le chiavi nel quadro e partire per quest'altra emozionante mattinata di lavoro non retribuito dove noi studenti siamo tratti da schiavi e alla fine dobbiamo anche ringraziare.
Quello che non immaginavo quando mi sono scelta questo lavoro è che l'infermiere non è solo quello che da buone notizie ma è soprattutto quello che vive il dolore altrui come se fosse il proprio ma deve rimanere impassibile, è quello che si prende il malumore di un malato anche se lui non c'entra niente, è la spalla su cui piangere e il sacco da boxe umano su cui inveire e questo mi è stato estremamente chiaro quando a 20 anni mi hanno sbattuta in un reparto di oncologia per cui non ero minimamente preparata psicologicamente.
A lezione ti insegnano teoricamente le procedure che devi saper effettuare: fare un prelievo ematico, incannulare una vena, praticare un intramuscolo, inserire un sondino naso-gastrico... ma niente può preparati alla vista di una donna di 30 anni distrutta dal 4° ciclo di chemio, del suo disgusto mentre si guarda allo specchio, del mondo in cui abbassa lo sguardo quando il suo bambino viene a trovarla mentre pensa che una buona madre non lascerebbe mai che il suo piccolino debba vivere l'ambiente ospedaliero per colpa sua. Ma noi siamo lì, cercando di aiutare come possiamo, con una parola di conforto o semplicemente con un sorriso.Stamattina dato il mio "incidente" sono terribilmente in ritardo e comincio a sperare che la mia caposala non se ne sia accorta mentre velocemente mi cambio e raggiungo l'infermeria, appena Simona nota il mio sguardo preoccupato mi sorride, segno che per questa volta sono salva
"Simo scusami per il ritardo, davvero sono mortificata!"
"Tranquilla tesoro, nessun problema mi dispiace solo che abbiamo già completato la terapia!" mi risponde effettivamente dispiaciuta, l'unica cosa positiva dell'oncologia?! Ci sono esclusivamente infermieri giovani, dopo qualche anno c'è un ricambio generazionale in reparto, a quanto pare non si è in grado di reggere per molto la vista di tanta sofferenza tutti i giorni, 7 ore al giorno.
"Figurati, è solo colpa mia! C'è qualcos'altro da fare?" chiedo, se c'è una cosa che odio è stare con le mani in mano
"Guarda nella 806 c'è un nuovo ricovero, potresti andare a prendergli i parametri?" annuisco e dopo aver preso tutto il necessario mi diriggo nella stanza
"Buongiorno!" esordisco, rendendomi conto che Simona non mi ha detto il nome del paziente. Appena alzo lo sguardo noto che la stanza è vuota, probabilmente il paziente è in bagno quindi attendo. Quando finalmente la porta si apre rimango interdetta e spero di riuscire a mascherare le mie emozioni.
"Hai qualche problema?!" Mi chiede il ragazzo che ho davanti, deve avere più di 18 anni altrimenti non si troverebbe qui ma in oncologia pediatrica, ma sembra più giovane, è terribilmente magro e ad una prima vista potrebbe sembrare fragile ma ha un luce negli occhi che fa... paura.
"Allora?" Mi chiede nuovamente ridestandomi dai miei pensieri mentre si posiziona sul letto
"Mi scusi, sono qui per misurarle la pressione e la temperatura, lei è il signor..." chiedo per scrivere il nome nella scheda dove inserirò i dati
"Cominciamo bene, mi hanno mandato quella ritardata che non sa neanche il nome del paziente da cui sta andando.." dice acido
"Mi scusi?!" Ribatto
"No, non la scuso e adesso esca di qui e mi mandi qualcuno con una laurea per favore" rimango scioccata dalle sue parole ma cerco di non darlo a vedere e lascio tutto nella stanza prima di recarmi a passo di marcia da Simona
"Quello è uno stronzo!" Esordisco sperando che il tono alto della mia voce arrivi anche a lui
"Sofia!" Mi rimprovera Simona
"Che succede?! Chi è uno stronzo?!" Chiede qualcuno alle mie spalle
"Doc!" Esclamo mentre faccio la melodrammatica buttandomi tra le braccia del Dottor Rossi, lui è uno di quei pochi dottori che non fanno gli altezzosi solo perché hanno un pezzo di carta appesa nello studio, lui tratta tutti allo stesso modo: colleghi, infermieri, pazienti e perfino noi tirocinanti che siamo l'ultimo anello della catena. In pochissimo tempo abbiamo stretto un bel legame, nonostante non abbia più di 40 anni lo vedo come una figura paterna, mi ha insegnato davvero tanto e diciamo che per questi nostri atteggiamenti non proprio professionalissimi girano alcune voci sul nostro rapporto assolutamente false che non sto neanche a riportare."Lo stronzo sarei io dottore" dice il mio paziente X sulla soglia del corridoio
"Emanuele, non puoi trattare male la mia piccolina!" Scherza Rossi scompigliandomi i capelli come al solito
"Ei! Piccolina a chi!" Cerco di fare l'arrabbiata ma in meno di un secondo già sto sorridendo mentre con la coda dell'occhio vedo Simona scuotere la testa contrariata. Lei me lo dice spesso che non è "opportuno" come dice lei avere certi atteggiamenti con i superiori ma non riesco proprio ad evitarlo.
"Quindi qual è il problema?" Continua Rossi avvicinandosi al paziente
"Niente, niente" cerco di minimizzare io, perché è vero che mi piace fare scena ma i miei problemi me li risolvo da sola
"Sicura?" Chiede premuroso
"Sicurissima Doc" rispondo con un sorriso e lui si allontana da noi lanciando un ultimo sguardo al ragazzo.
"Allora, te la fai prendere questa pressione per favore?" Gli chiedo appena Rossi è fuori portata di orecchio
"Come mi chiamo?" Chiede e leggo la sfida nei suoi occhi
"Emanuele Torcia, 22 anni, diagnosi: leucemia linfatica cronica" per un secondo intravedo un accenno di sorpresa ma lo maschera subito
"Eh va bene, puoi prendermi la pressione" mi concede entrando nella stanza e involontariamente sorrido vittoriosa ringraziando il fatto di aver visto la sua cartella aperta sul bancone quando sono andata da Simona a lamentarmi
"E togliti quel sorrisetto dalla faccia o ti caccio di nuovo" Mi ammonisce e torno subito seria.
E così inizia il mio calvario.
Cosa dicevo stamattina?! Buon presentimento?! Segui il tuo istinto?! Dovevo rimanere a letto.Ciao a tutti!
È davvero un bel po' che non scrivo e mi sento arrugginita ma questo è il primo capitolo di una storia che spero leggerete in tanti. Come tutte le storie ci vogliono un po' di capitoli per carburare e per capire bene la trama ma spero che mi diate una possibilità e che vi piaccia. A presto!
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La stanza 806.
RomanceUna camera d'ospedale spesso è bianca, antisettica, impersonale, triste. Una camera d'ospedale a volte può diventare un incubo per chi è costretto a soggiornarci e la trasforma in un incubo anche per chi è li ad aiutarlo. Per due ragazzi una camer...