Capitolo 4. Clichè

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Battetti più volte i piedi sull'asfalto, cercando di riscaldare, inutilmente, le mie gambe nude in quella notte che sfiorava a malapena i 4°C.

Pur di uscire in fretta e furia da quel locale insieme a Noah, avevo dimenticato di prendere il cappotto, riverso sulla sedia.

Perciò, adesso, non mi toccava altro che contorcermi in pose tutt'altro che fini pur di ricavare un po' di calore in più.

Con le braccia strette al petto cercavo di allungare, il più possibile, il vestito sulle ginocchia, mentre camminavo su e giù per il vicolo deserto, illuminato solamente dalle lucine natalizie dai più sgargianti colori, che sporgevano dalla strada principale, affollata e ricolma di persone che si affannavano per raggiungere Times Square in tempo, prima che l'orologio segnasse la mezzanotte.

"Puoi velocizzare il processo di autodistruzione che vuoi importi? Domani mattina non vorrei svegliarmi e scoprire di essermi presa una polmonite a causa tua" brontolai, rabbrividendo.

"Cosa?" domandò Noah, sgranando gli occhi spaesato.

"Hai detto che dovevi fumare" spiegai, con fare ovvio, e lo vidi sorridere ingenuamente, per poi scuotere la testa, colto in fragrante.

"Oh, ma io non fumo"

Aggrottai le sopracciglia, ancora una volta spiazzata da quella confessione.

"Perchè hai mentito, allora? Tu sei malato!" iniziai a gesticolare, fuori di me, sotto il suo sguardo divertito.

"Sei un bugiardo patologico" continuai, squadrandolo e, all'improvviso, tutto mi fu più chiaro "Senti, ho degli amici psichiatri che possono aiutarti"

Feci un passo verso di lui, provando a relazionarmici in maniera più civile, senza aggredirlo, mentre Noah mi guardava, allibito, senza sapere bene se stessi scherzando o se fossi più che seria.

"Perchè, diavolo, hai degli amici psichiatri?" domandò di rimando Noah, come se, di tutto il discorso fattogli, quello fosse l'elemento di maggior rilevanza.

"Sono una specializzanda in medicina legale" spiegai, con fare ovvio "Conosco medici di qualsiasi settore"

Il suo viso parve illuminarsi e, senza preavviso, portò all'indietro il capo, scoppiando in una risata liberatoria che mi lasciò interdetta.

"Non sono malato" balbettò, mentre, tra una risata e l'altra, ormai senza più fiato, cercava di riprendersi.

"No?" domandai, scettica, e lo vidi scuotere la testa, tornando a puntare i suoi occhi verde petrolio nei miei.

Le sue iridi erano talmente luminose che non riuscivo a distogliere lo sguardo dal suo viso, ora più rilassato.

"Certo che no. Avevo bisogno di una scusa per poterti parlare, prima che mi potessi mettere nei casini con Gareth e la band" chiarì, ma, prima che concludesse di espormi la sua versione dei fatti, si sfilò la giacca blu notte per appoggiarla sulle mie spalle gelide, rimanendo con solamente la camicia a riparlarlo dal freddo.

"Non c'è n'è bisogno" rifiutai con un sorriso quel gesto, ma nel momento in cui provai a restituirgli la giacca, lui fece un passo indietro, un sorriso sornione e sicuro di sè era stampato sul suo volto beffardo.

"Sappiamo entrambi che vuoi sapere la verità sul perchè io abbia mentito a Gareth, perciò se tu non indossi quella giacca adesso, io non aprirò bocca" mi aveva tra le sue mani, e ne era più che consapevole.

"Però ammetti di aver mentito!" assottigliai lo sguardo, sorridendo compiaciuta, e lo vidi alzare gli occhi al cielo, divertito, mentre infilavo le braccia nella sua giacca, riparandomi in quel torpore impregnato del suo odore, talmente intimo da rendermi irrequieta.

Countdown || Noah CentineoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora