Capitolo 6

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Non ero mai stata una persona che perdesse facilmente le staffe o che semplicemente si lasciava travolgere dalle cose senza almeno provare a remargli contro, purtroppo però quelli che ipotizzavo fossero almeno sei metri di altezza, che mi separavano dal piano terra, non riuscivano a farmi rimanere tranquilla.
Istintivamente presi il cellulare dalla tasca del cappotto che indossavo e guardai lo schermo illuminarsi pregando Dio che ci fosse della ricezione per il telefono.
Una sola misera tacca era colorata e non so se fu il panico o se davvero fosse stata la realtà ma, sembrava sbiadita e tremolante come se da un momento all'altro anch'essa sarebbe andata via.
«a te prende?» mi chiese,illuminandomi il volto con la luce della torcia del telefono.
I miei occhi per riflesso si chiusero e lui immediatamente puntò il flash della fotocamera da un'altra parte.
«scusa, scusa» il suo tono di voce mi fece intendere che, sebbene fosse meno agitato di quanto lo fossi anche io, alla fine nemmeno lui trovava questa situazione divertente.
Provai a chiamare Arthur, componendo il solito numero per la portineria, ma questo dapprima squillò due volte a vuoto poi mi restituì indietro il tipico rumore sordo della linea telefonica interrotta.
«siamo chiusi qui, fino a che non ritorna la corrente» e non trovavo questa ipotesi la migliore delle soluzioni che facessero al nostro caso.
Lo osservai flettere le ginocchia e accomodarsi sul pavimento dell'ascensore, cercando forse di mantenere i nervi saldi mentre io provavo ancora a farmi venire in mente la soluzione che ci avrebbe tirati fuori di li, al più presto possibile.
«chiamo i vigili del fuoco» dissi e mi guardò senza riuscire a trattenere una risata.
«a te le divise devono piacere davvero tanto» arrossi dannatamente tanto per il semplice fatto che aveva centrato il punto e che stesse ritirando fuori la storia del suo compleanno.
«vuoi rimanere sospeso in aria, fino a data da destinarsi?» provai a sviare il discorso riuscendoci scarsamente perche le sue mani andarono dritte sulle mie e mi tirarono giù.
«non mi siederò per terra» precisai e allora guardò ciò che ci circondava e se stesso e quasi più veloce della luce mi portò sulle sue gambe.
Avevo il volto che mi bruciava come se ci avessero appiccato sopra un rogo, e probabilmente la voce si era ridotta ad un soffio.
«prova a mantenere la calma, ci tireranno fuori di qui, mi è già successo una volta a Torino nell'appartamento in cui vivevo prima di adesso» la sua voce fu il miglior distrattore che potessi avere in quel momento perché le mie orecchie e la mia mente si concentrarono su ciò che mi stesse dicendo.
«hai cambiato casa?» la mia domanda lo stupì, come stupì anche me stessa perché non seppi mai con certezza il motivo del perché una persona qualunque riuscisse a sovvertire molte abitudini della mia vita.
«ho cambiato casa a fine Maggio, mi sono spostato dal centro città perché Wendy e Spike hanno bisogno di un giardino in cui giocare» se non fosse che i nomi fossero stati prettamente nomi da cani, presa dal panico momentaneo probabilmente gli avrei chiesto se avesse avuto già dei figli.
«deduco che ti piacciano gli animali» ed effettivamente a guardarlo sembrava proprio quel tipo di persona che tiene degli animali in casa
«tantissimo. I miei due bambini sono dei bulldog» sorrisi,anche se di nascosto, per l'appellativo con cui si riferì ai suoi due amici domestici 
«a te piacciono gli animali?» mi chiese
«no ne ho mai avuto uno e non ne ho comprato uno ad Alan perché io non ci sono mai a casa e Antoniette non può pensare anche ad un cane ma, quando ero ragazza il mio vicino di casa ne aveva uno e si chiamava » sorrise annuendo come a confermarmi che sebbene l'italiano che conoscessi probabilmente fosse pieno di errori sia grammaticali che fonetici, ero comunque riuscita a farmi capire.
«posso sapere chi è Alan?» quella domanda mi colpì in pieno perché per me era del tutto anormale parlare di mio figlio con una persona incontrata qualche volta per brevi minuti,dentro l'ascensore del palazzo in cui abitavo.
«è mio figlio» fui rapida e concisa ma a spiazzarmi fu il sorriso che mi rivolse.
Rimasi li a guardarlo, a corto di parole perché non riuscivo a metterne in fila più di due e perché non riuscivo neppure a capire il perché mi sentissi dannatamente a mio agio in sua compagnia.
Le sue mani erano poggiate ai lati del suo corpo, eppure nella mia mente avrei preferito sentirle ancora e provare nuovamente quella sensazione di scossa elettrica che mi aveva percorso la colonna vertebrale.
«io...io gioco a calcio» ebbe bisogno di schiarirsi la voce
«mio figlio ama il calcio e tifa per una squadra italiana che non ricordo mai il nome» Alan me lo aveva ripetuto chissà quante volte ma era più forte di me far rimanere quel nome nella mia mente.
«ricordi i colori? Della squadra intendo» lo guardai inarcando un sopracciglio come a volergli dire che avevo capito la domanda prima ancora che lui la palesasse cosi tanto.
«si, bianco e nero» ridacchiò alla mia risposta
«si chiama Juventus, ti suona familiare come nome?» mi suonava familiare eccome perché era proprio quella la squadra che Alan aveva imparato a pronunciare a nemmeno due anni di vita.
«si è proprio questa» l'immagine del mio bambino mi riempì la mente e sorridere fu inevitabile
«ho visto qualche partita ogni tanto, ma non è uno sport che fa per me» prima di tutto ne avrei dovuto capire le regole e le disposizioni in campo, ad esempio.
«hai visto qualche partita?» sembrò stupirsi che io potessi fare una cosa del genere.
«quando tuo figlio ha una passione, quella diventerà inevitabilmente anche la tua. Forse mi sarebbe piaciuto che guardasse il tennis o il ciclismo ma i miei fratelli lo hanno istruito da piccolo e so già da adesso che sarò in tribuna a veder giocare quella squadra chissà quante colte l'anno» Alan non era mai stato un bambino difficile da accontentare ne uno particolarmente viziato.
«io gioco nella Juventus» quasi mi venne da ridere.
«ma io non ti ho mai visto!» fui sincera e il sorriso triste che nacque sul suo volto mi fece pentire della mia onestà
«ho avuto un infortunio importante ma sto ritornando a riprendere il mio posto in campo» mi era venuta una gran voglia di passargli le mani tra quei capelli lunghi che portava ma a salvarmi dal mio istinto fu la luce che torno ad illuminare l'ascensore.
«siamo salvi» fu la prima cosa che dissi non appena l'ascensore tornò a funzionare e mi issai in piedi sistemando la gonna che si era leggermente alzata.
Il suo corpo agile si tirò su molto più facilmente del mio e si portò le mani tra i capelli, come avrei voluto fare io, per sistemarseli scompostamente all'indietro.
L'arrivo al quinto piano fu quasi immediato e quando le porte si aprirono fui veloce ad uscirne fuori e a tir via un sospiro di sollievo.
Adocchiai immediatamente la porta del mio appartamento, all'ultimo piano del palazzo e con non poco imbarazzo lo salutai mentre inserivo le chiavi nella toppa della porta e lui dall'altro lato aspettava che Veronique lo lasciasse entrare.
«sono arrivata» annunciai non trovando Antoniette in salotto.
Alan stava sonnecchiando sul divano con la bocca socchiusa e mi chinai su me stessa per baciargliela e sistemarlo meglio.
«scusami tesoro, ero in lavanderia a tirar fuori la roba dall'asciugatrice» Antoniette mi venne incontro per salutarmi mentre io sfilavo dai miei piedi i tacchi e mi abbassavo di un po' di centimetri.
«vuoi che ti prepari un caffè,un tea caldo,una tisana?» mi chiese mentre ritornò in cucina
«un tea verde caldo, sarà più che sufficiente» poggiai il cappotto nell'attaccapanni all'ingresso e tirai via la collana che indossavo,lasciandola momentaneamente nel vaso di ceramica che stava all'ingresso.
Camminai scalza sul parquet riscaldato, raggiungendo Antoniette in cucina e accomodandomi nella comoda sedia del tavolo.
«sono rimasta chiusa mezz'ora nell'ascensore» le comunicai e lo sguardo inorridito che fece mi disse semplicemente quanto per lei una situazione simile sarebbe stata molto più tragica di come era sembrata a me.
«nulla di così preoccupante Ninette, ho dovuto aspettare qualche minuto in più prima di tornare a casa» omisi volutamente il dettaglio Federico perché benché Antoniette fosse la versione più simile ad una madre che avessi qui a Parigi, non mi piaceva affatto farle credere che stessi frequentando o che comunque mi interessasse qualcuno.
Antoniette mi voleva bene, molto più di quanto agli inizi avrei anche solo immaginato e dopo il divorzio, nonostante fosse stata la tata di Victoria, la prima figlia di Pierre e la sua prima moglie, aveva riservato nei miei confronti e in quelli di Alan, un affetto spropositato.
Era rimasta al mio fianco e quando avevo detto ad Alan di chiamarla nonna, la commozione che aveva attraversato i suoi occhi era stata talmente tanta che aveva iniziato a piangere dalla gioia.
«come è andata la giornata a lavoro? Oggi c'era scritto nel calendario dello studio che avresti dovuto incontrare Karl» ecco perché la consideravo quanto di più simile ad una madre potessi avere qui a Parigi.
«è andata benissimo, siamo andati in quel ristorante che adora» fece una faccia inorridita per il semplice fatto che a Ninette non piaceva doversene stare seduta in un locale dove l'unico rumore auscultabile fosse quello dell'argenteria che sbatteva educatamente contro la porcellana del servizio di piatti.
Versò il tea verde in due tazze, una per me ed una per se e prese dalla dispensa i biscotti integrali per cui andavo

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