I Corallario di Emilia

53 1 0
                                    


Emilia, con una grande valigia di cartone in mano, esce dalla casa, chiudendo la porta alle sue spalle, in religioso silenzio, come se scappasse. E infatti se ne va di nascosto. Si guarda intorno. C'è un profondo silenzio. Resta incerta. Riapre appena appena la porta, osserva dentro. La fuga dei corridoi e delle stanze, fino al grande soggiorno inondato dalla triste luce del sole, è tutto vuoto e deserto. Richiude un'altra volta la porta. Un'espressione soddisfatta, dura, d'invasata la deforma: c'è anche, in questa espressione, un po' di sacra furbizia.
Scende in punta di piedi le scale, portando la valigia come le contadine portano il secchio dalla fontana: tutta ripiegata da una parte, col braccio tirato, la mano rossa e gonfia; e l'altro braccio, quello libero, annaspante stupidamente nell'aria, senza pudore.
Percorre tutto il tratto di strada che attraversa il giardino, guardandosi indietro, furba, incerta, allungando il passo, annaspando ancora di più col braccio sinistro libero, per mantenere l'incerto equi- librio: ma cosa c'è dentro quel valigione di cartone? del piombo? Ci sono tutte le sue ricchezze e i suoi ricordi, povera Emilia. Se li trascina dietro eroicamente e, ormai, inutilmente.
Eccola sulla strada. La stessa in cui il giorno prima, o pochi giorni prima, o insomma, in un indefinito tempo anteriore, il taxi dell'ospite era scomparso.
C'è lo stesso silenzio, la stessa luce. Gli abitanti di quel luogo consumano la giornata secondo il ritmo degli stessi ideali. Balconi e pergole liberty, poggioli novecento, angoli di cemento, riquadri di piastrelle, si alzano contro il cielo, sopra i giardinetti dal cupo e stento verde dei piccoli pini presuntuosi, e addirittura di qualche orribile palma.
Essa percorre tutto il lungo rettilineo di quella prospettiva, lentamente, arrancando col suo valigione - che cambia di mano, ogni tanto - finché rimpicciolisce, in fondo, e scompare.
......................... .......... ......................... .......... Giunge in una grande piazza tonda, con al centro un'aiuola verde,
e intorno una raggera di strade che si aprono tutte uguali, con le stesse prospettive. Grandi case, e, sotto le fronde dei castani cittadini tutto è reso impreciso dalla bruma. Tram e autobus girano senza sosta intorno alla piazza, e fiumi di automobili; il rumore dei motori è un frastuono infinito, e ora ci si mettono anche delle sirene: sirene di mezzogiorno, o della sera, o di qualche altra ora del tempo delle fabbriche. La gente intorno a Emilia sembra non ascoltare e non vedere niente; come del resto Emilia stessa. Aspettano tutti, diligenti, assenti e dignitosi, l'arrivo del loro mezzo pubblico di trasporto, sotto una pensilina. Eccolo che arriva, inospitale, obbligatorio, luccicante; ed eccolo che riparte col nuovo carico, perdendosi per una di quelle strade che partono a raggera dalla grande e affollata piazza rotonda verso un fondo di sospese foschie...
......................... .......... ......................... ..........
L'Emilia se ne sta sotto un'altra pensilina - più grande, questa, con un lungo muro in fondo, e i sedili di pietra. Ha ai piedi la sua valigia scalcagnata. Se la tiene stretta contro il polpaccio, come un cane che non perde un momento d'occhio ciò che gli hanno affidato. La gente, intorno a lei, che aspetta, anch'essa con le sue valigie, le assomiglia più dell'altra. Sono contadini come lei, che vanno e ven- gono da Milano ai loro piccoli paesi della Bassa. Infatti il mezzo che ora arriva è una grossa corriera, vecchia, quasi in disuso. Arriva dopo un'attesa interminabile e, dopo un'altra attesa interminabile, quando da tempo è già piena di tutta quella gente, raccolta, quasi in religioso silenzio, riparte.
......................... .......... ......................... ..........
La corriera si ferma nella piazzetta ai margini di un paese. La piazzetta è tutta bianca, desolata. A un angolo c'è una pizzicheria, davanti, una vetrina piena di bare,in mezzo un bar, con le scritte al neon, i vetri scintillanti, e, dentro, la vecchia, stantia, fredda miseria paesana. Scende lentamente dalla porta anteriore della corriera, una fila di gente; vecchi contadini, dalle collottole di porci, donne vestite di scuro, qualche studente, un soldato, e infine, con la sua valigiona che la fa andare sbilenca, l'Emilia.
I suoi compagni di viaggio si disperdono nel silenzio del paese, lungo straducce strette e lunghe, ma accuratamente asfaltate, e con gli intonachi delle case di un secolo prima tutti ridipinti da poco di colori chiari e freddi.
Anche Emilia si perde giù per una di quelle strade, dove c'è solo qualche bambino infagottato di panni non poveri, come nelle fiabe, e qualche cane. In fondo, si intravede la campagna, uno scenario tremolante e trasparente di pioppi il cui primo verde ha l'incertezza del colore della terra, e le gemme sono arricciate e rade come le foglie secche.
Uno stupendo velo di nebbia, fa di quelle file di pioppi che appaiono lontani, uno scenario fin troppo raffinato, per una solitudine sacra perché contadina.
......................... .......... ......................... ..........
Il paesaggio è lo stesso per cui, qualche tempo prima, il padre, Paolo, e l'ospite, si erano spinti con la loro macchina, fino sul Po; o, se volete, il paesaggio è lo stesso attraverso cui Renzo, camminando a piedi, ha raggiunto l'Adda, secondo il racconto delle più poetiche pagine del Manzoni.
Ma c'è qualcosa di innaturale nel numero immenso di pioppi che incorniciano prati e cielo, avanti, di dietro, a destra, a sinistra; cornici di pioppi grandi come piazze d'armi o spiazzi orientali, oppure stretti e misurati come piante di cattedrali; e che traspaiono gli uni sugli altri all'infinito: una fila sghemba traspare su una fila dritta; una fila dritta su un'altra fila parallela ad essa; e questa su una fila perpendicolare; e poiché il terreno è ondulato, questo trasparire di file di pioppi su file di pioppi, non ha fine; è un anfiteatro immenso, come nelle stampe delle antiche battaglie, e, nella pace innaturale e profonda (innaturalezza e profondità dovute certamente oltre che all'opera della natura - che lavora lì, passiva e potente, come nel fondo di un mare - anche all'industria della cellulosa), compaiono, qua e là, come mucchietti di cose preziose, i severi campanili con accanto il pasticcio della loro cupola, di un marrone rossiccio, quasi ruggine, e con screziature di sanguigno (il seicento e il settecento di luoghi severi, ora stagnanti ad aspettare la loro fine).
È attraverso questa campagna - per una lunga e stretta strada accuratamente asfaltata - che adesso l'Emilia cammina, trascinandosi dietro il suo valigione. Cammina per molto tempo, ogni tanto soffer- mandosi, e cambiando di mano paziente il peso: sola, in tutta quella vastità di pioppi, marcite, cielo e cartelloni pubblicitari. Finché, giunta a un piccolo bivio, in cui, dalla strada asfaltata, si stacca una strada di terra, oscura, con al centro una lunga spina dorsale d'erba (l'antico tracciato dei carri), svolta, e affrettando il passo, si avvia verso un casale, che, grande e rossiccio come una caserma, si alza in fondo alle file di pioppi, sul malinconico verde.
......................... .......... ......................... ..........
Nel cortile del casale non c'è nessuno. Un sole velato lo riempie dappertutto, quasi senza lasciare un filo d'ombra in alcun angolo.
Ha tutto intorno dei lunghi edifici, bassi, dai tetti rossi, da una parte una grande tettoia, con le stalle (silenziose) all'ombra dei torrioni tondi di due silos, cadenti, severi come quei campanili, che appaiono lontani, oltre le infinite file dei pioppi; dall'altra parte una casa d'abitazione, con le imposte tutte chiuse, dove solo la porta a vetri, grigia, è schiusa, ma coperta da una triste e immacolata tendina. Davanti c'è un casolare, forse un'altra stalla, e un mucchio di mattoni rossi, tra arnesi, rosso sangue, che sembrano abbandonati lì per sempre ad arrugginire; e, tra una costruzione e l'altra (fantastiche e minuziose, come caserme principesche del settecento), le lievi prospettive dei pioppi, tra la bruma, su ondulazioni complicate da alti argini, da alzaie, forse per la presenza di un fiume.
Su un mucchio di sabbia, in mezzo al cortile, dove restano le tracce di un corroso piancito di cemento, giocano due bambini, ingolfati nei loro panni poveri ma puliti, come nelle illustrazioni delle favole. Hanno le facce rosse e inespressive, già adulte e giudiziose, dei loro genitori contadini. Essi guardano con una curiosità senza stupore, forse per la timidezza e la buona educazione, apprese in casa o alle vicine Elementari, Emilia che arriva, entrando in silenzio in quella grande corte.
Lei li guarda a sua volta in silenzio.
Per tutta la strada aveva camminato tirandosi dietro la sua valigia, come spinta dall'invasata determinazione di una ricattatrice, di una infanticida. Adesso è lì, ferma, davanti al cortile della sua vecchia casa, che il suo silenzio e la sua paura rendono ancora più sacra. Viene un cane e l'annusa. Essa muove ancora qualche passo verso l'interno della corte - mentre già alla porta si vede alzarsi la bianca tendina ricamata, e schiacciarsi contro i vetri qualche viso preoccupato e ostile - dimenticando, per la prima volta, di prendere in mano la valigia - che rimane abbandonata sul terriccio, gonfia, sola e inutile.
In fondo, oltre il mucchio di mattoni rossi e degli attrezzi, c e una vecchia panca - bruciata dal sole, marcita dalla pioggia - restata lì chissà da che tempi dell'infanzia di Emilia. È questa panca che essa, riconoscendola, guadagna con un passo che è tornato il passo invasato e ostinato di prima, e vi si mette a sedere, restando rigida e immobile, nella luce estranea del sòle.

TeoremaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora