Pietro è chino su dei fogli bianchi. Disegna. È così accanito e intento a disegnare (disegna una testa, che assomiglia, ma certo goffamente, a quella dell'ospite) che si dimentica di essere solo, e parla forte, commentando e giudicando quello che fa.
Ne è disgustato: la scontentezza e la delusione che gli danno i suoi disegni, è come uno spasimo, che gli sfigura i lineamenti e gli arrochisce la voce.
Alla fine fa a pezzi, arrotola e getta via il foglio di carta su cui sta disegnando.
Pietro disegna ancora; ma si è fatto portare nella camera un tavolo più grande, che è pieno di fogli e di matite.
Ma, ora che è meglio organizzato, non è però più contento di quello che riesce a fare.
Comincia un foglio nuovo, immacolato - come preso da una ispirazione quasi allegra, nella sua puerile ferocia. Ma poi, man mano che il disegno prende forma (si tratta sempre della testa dell'ospite), il disgusto e la rabbia sostituiscono speranza e buona volontà. Ed egli continua a parlare forte con se stesso (con la voce rauca, stonata e lamentosa con cui appunto si parla, senza dignità, quando si è soli). Giudica i suoi sbagli con spietato disprezzo, commenta sardonica- mente, grida « Merda! », e finisce con l'insultarsi, col darsi dell'idiota, dell'impotente, dello stronzo.
Pietro è ancora chino a disegnare. Ma nel giardino, stavolta, su un foglio enorme (formato da vari fogli incollati su del compensato), che certamente dentro la stanza non avrebbe potuto essere contenuto. E infatti occupa un intero pezzo di prato.
Pietro non disegna più con una matita, ma con un grosso pennello - stando chino su quel foglio come un pavimentista.
Ma si lamenta ancora sordamente fra sé, mormorando sgrazia- tamente che ancora quel disegno non gli somiglia, non gli somiglia, non gli somiglierà mai - e se anche gli somiglierà sarà un risultato schifoso e assurdo - che nel vuoto (così annaspante, con un pennello in mano) l'ha trovato, e nel vuoto lo lascerà. La povera Emilia nuova, che viene a portargli una coca cola, lo coglie in pieno monologo. E, da serva, ascolta i protervi disegni del padrone per il proprio futuro: un modo qualsiasi per appropriarsene, divenendo autore, artista, creatore. Ma, alle spavalde assicurazioni - fatte alla serva veneratrice - seguono subito le sorde ironie del dubbio, le fredde ruminazioni dell'angoscia.
Disegnare... dipingere... diventare un autore: intanto, questo non è che un mettersi in mostra, un rischiare di venire in contatto con un mondo che deve apprendere tutto di colui che si presenta, e lo apprende senza tener conto di lui, quasi egli fosse un predestinato, un inviato del cielo: e così ignora la sua solitudine, lo crede già fatto per vivere pubblicamente, in un luogo dove non esiste, in questo caso giustamente, nessuna pietà.
E attraverso che umilianti prove, deve passare poi un artista! Che meschinità questo pennello, con questi suoi giochetti di contorni, e macchie, e sbavature su un pezzo di carta incollata! Di che poveri strumenti, di che mezzucci, ci si deve servire! Che puerilità questa tecnica, questo ineliminabile momento pratico e manuale, questo stare chinati come scolari su un foglio, e segnarlo, segnarlo, con diligenza, sempre come se fosse la prima volta, con la lingua fuori, gli occhi esaltati, e una vergogna terribile che invade tutto il corpo adoprato come un manichino.
Ancora gobbo sopra i fogli, Pietro prova nuove tecniche, per vedere di superare la vergogna delle tecniche normali.
Ha intorno, in disordine, mescolati senza nesso, colori a olio, ad acquerello, a tempera, a pastello: ma ciò che più è impressionante è la presenza di mucchi di materiali tutti trasparenti: cellophane, grosso o leggero, carte veline, garze e vetri, soprattutto vetri.
Tentando queste nuove tecniche - solo in quel giardino come un cane Pietro naturalmente non ha perso l'abitudine di parlare, di giudicare, di lamentarsi, di commentare fra sé quello che fa. Quel-
lo che fa ancora e sempre gli fa schifo. Traccia con un pennello sul cartone di fondo la forma di una testa (sempre la testa dell'ospite?); poi incolla sopra il cartone così segnato (la colla è giallognola; ed egli non si cura delle sbavature dell'olio ancora fresco), un velo di garza, e con un pennello intinto in un azzurro turchese, segna due macchie al posto dove presumibilmente dovrebbero trovarsi gli occhi; poi ancora, sempre senza curarsi delle possibili sbavature, appoggia, sopra il cartone e il velo di garza, un grande pezzo di vetro: e qui, con il pennello intinto in un seppia chiaro, traccia, intorno alle macchie azzurre sulla garza (che traspaiono sotto il vetro) e dentro il contorno nero del cartone (che traspare sotto il vetro e la garza) i cerchi degli occhi.
Ride, ride. Ride sullo sgorbio che ne vien fuori - amaro, disgustato verso se stesso, sinceramente divertito dalla sua goffaggine, sovraeccitato e deluso.
Grande è il mucchio dei disegni e delle pitture dentro la cameretta di Pietro (egli è ritornato alle piccole dimensioni, e perciò è rientrato all'interno). Ispirato, pazzo, rapito, il ragazzo è chino, in ginocchio, sul suo materiale, che stavolta è appoggiato su una specie di grande leggio (e poiché quel materiale è ancora trasparente, si potrebbe guardare Pietro attraverso il quadro che egli sta dipingendo). Finito di dipingere il primo vetro, in silenzio, Pietro appoggia sopra il primo vetro il secondo, facendo trasparire sul primo quadro, monocromo, la monocromia del secondo.
I movimenti di Pietro, nell'eseguire queste operazioni, sono meccanici e ispirati; e la sua voce che instancabile li commenta ha perso ogni colorazione: bassa, appena percettibile, essa segue esatta quei movimenti.
Bisogna inventare nuove tecniche - che siano irriconoscibili - che non assomiglino a nessuna operazione precedente. Per evitare così la puerilità e il ridicolo. Costruirsi un mondo proprio, con cui non siano possibili confronti. Per cui non esistano precedenti misure di giudizio.
Le misure devono essere nuove, come la tecnica. Nessuno deve capire che l'autore non vale nulla, che è un essere anormale, inferiore - che come un verme si contorce per sopravvivere. Nessuno deve coglierlo in fallo di ingenuità. Tutto deve presentarsi come perfetto, basato su regole sconosciute, e quindi non giudicabili. Come un matto, sì, come un matto. Vetro su vetro, perché Pietro non è capace di correggere - ma nessuno se ne deve accorgere. Un segno dipinto su un vetro corregge senza sporcarlo un segno dipinto prima su un altro vetro. Ma tutti dovranno credere che non si tratti del ripiego di un incapace, di un impotente: bensì che si tratti invece di una decisione, sicura, imperterrita, alta e quasi prepotente: una tecnica appena inventata e già insostituibile. Oppure cellophane o garza incollati su vetro, e tutto trasparente su un po' di segni che per caso siano riusciti bene sopra un cartone, dopo mille prove penose e mille altri cartoni stracciati.
Nessuno deve sapere che un segno riesce bene per caso. Per caso, e tremando: e che appena un segno si presenta, per miracolo, riuscito bene, bisogna subito proteggerlo e custodirlo come in una teca. Ma nessuno, nessuno deve accorgersene. L'autore è un povero tremante idiota. Una mezza calzetta. Vive nel caso e nel rischio, disonorato come un bambino. Ha ridotto la sua vita alla malinconia ridicola di chi vive degradato dall'impressione di qualcosa di perduto per sempre.
Trasformato nell'aspetto - cioè impallidito, dimagrito, coi capelli lunghi, e i primi peli delle sue guance imberbi sgradevolmente neri lungo le basette - e vestito anche in diverso modo, trasandato, sporco, - Pietro sta per lasciare la sua casa. Saluta in silenzio sua madre Lucia, e suo padre Paolo. Ed esce. La nuova Emilia, coi grandi occhi umidi e pietosi, fa per prendere il suo bagaglio, ed aiutarlo. Ma Pietro la precede, afferra il suo bagaglio, il suo sacco, e, senza voltarsi indietro, esce.
Cammina dritto per la solita strada davanti a casa sua, quella in fondo alla quale era scomparso l'ospite. Anch'egli vi scompare, solcandone, insensibile, il malinconico e odioso suo raccoglimento.
Pietro (nel suo studio nuovo, certo al centro della città) è su un quadro appena finito. Si tratta semplicemente di una superficie dipinta di azzurro (lo stesso azzurro con cui sono stati solitamente dipinti gli occhi dell'ospite). È l'azzurro che è il suo ricordo. Ma solo l'azzurro evidentemente non può bastare...
L'azzurro non è che una parte... Chi può dare a Pietro il diritto di operare una simile mutilazione? Quali ideologie - egli si chiede - bastano a giustificarla? Allora non erano meglio i primi miserabili tentativi di ritratti veri? Ah! La verità è questa: che sia le superfici fatte soltanto di azzurro, sia i ritratti realistici, non sono che dei pretesti inutili e ridicoli. Ed egli non dipinge e non ha mai dipinto per esprimersi, ma, probabilmente, soltanto per far sapere a tutti la sua impotenza.
Preso da un impeto feroce di odio - eppure con la calma un po' volgare di chi ha fatto un calcolo da accucciato che era davanti al suo quadro, si alza dritto, si sbottona i calzoni, e vi piscia sopra.
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Teorema
Fiksi Umum2^ parte: Teorema - Pier Paolo Pasolini {Libro NON mio, NON ne detengo i diritti}