È prestissimo. Il sole, quasi, deve ancora nascere.
Il casolare, coi suoi grandi cortili, è tutto deserto. Al massimo, c'è qualche passero che cinguetta nel gelo. Solo Emilia è là, seduta come sempre sulla sua panca.
Ma dal portone grande, che dà verso la strada, ecco avanzare, incerta, una figura nera: è una vecchia, una vecchia sdentata, dolce, incerta come una bambina, che arriva di soppiatto, intimidita dai suoi stessi passi.
Ha addosso il suo vestito più buono, quello che mette la festa, per andare alla prima messa: e tuttavia entra come una ladruncola sotto il portone, dove è ancora piena notte - e ricompare sull'orlo della corte, sempre più incerta, sempre più disorientata.
Forse ha paura di aver capito male, di essersi sbagliata, di aver commesso qualche errore: e così scruta, piena di apprensione, là in fondo, dove la santa sta seduta eretta e inanimata. Solo dopo molto tempo, Emilia dà segno di essersi accorta di lei.
Si alza, allora, per la prima volta dopo tanto tempo, dalla sua panca; e, col passo lento e invasato con cui mesi e mesi prima era tornata, raggiunge la vecchia, che l'aspetta, ora, con aria rassicurata di complice.
Così, insieme, le due donne, senza dirsi una parola, cominciano il loro viaggio.
Rientrano nell'ombra del portone, e ne riescono più in là, alla luce delle vaghe distese dei campi: qui, però, invece di prendere a destra, per la strada asfaltata, continuano per la carraia che si interna nella campagna, verso un'altra porta bianca, uguale a quella del portone d'entrata, appena percettibile nell'aria ancora smorta.
Il sole è sull'orizzonte, come un triste disco nella nebbia. Per i campi ancora scoloriti, le due donne, silenziose e nere, camminano a passo svelto, come se andassero a un mercato lontano.
Emilia sta piangendo disperatamente e silenziosamente: ma lascia che quelle prorompenti lacrime le colino giù ininterrotte lungo le guance, senza asciugarle.
Già cominciano a infittirsi, intorno, le case rustiche, circondate dai quartieri nuovi: tristi case, illuminate da un sole che le raggiunge stralunato, filtrato com'è dalla nebbia rimasta in fondo alla campagna.
Come, oltre il fossato verde e stillante della strada campestre, appare un manifesto - immenso come l'intera parete di un palazzo - dove un livido uomo, stringendo il pugno, annuncia l'imminente sorgere in quella zona di una nuova città - Emilia allunga il passo, piangente e severa - e presto raggiunge una grande strada asfaltata, che luccicando tristemente, punta verso Milano.
Con la vecchia compagna che le arranca animosa alle spalle, ormai Emilia, sempre spargendo un fiume di intrattenibili lacrime, cammina nei sobborghi di Milano.
Non c'è vita ancora: tutto è fermo e composto come durante la notte nel freddo chiarore della luna.
Le due passeggere camminano in fretta, incuranti che il loro passo violi quel silenzio della prima alba, rispettato da tutti, uomini e cose, come per un patto silenzioso. Soltanto il sole è presente, e pena, lavorando stancamente per invadere ancora una volta la città, con la sua luce volonterosa e sconsolata.
Giunta al luogo che essa ha prescelto - o che ha trovato per caso e considerato adatto ai propri piani - Emilia si ferma. E la vecchia, senza chiedere nulla, obbediente come una bambina, le si ferma alle spalle.
Davanti a loro si apre un enorme terrapieno, dove si sta costruendo un intero gruppo di palazzi della città. Nel centro di questo terrapieno, si alza, vertiginosamente, una scavatrice: le sue mandibole, nell'inerzia dell'ora antelucana, stanno sospese e cascanti contro il cielo.
Non lontano dalla scavatrice, c'è una buca, profondissima, che la scavatrice deve appunto appianare. Emilia osserva quella voragine nel suo tetro colore di fango, e decide: con gesti lenti e ben calcolati comincia a scendere verso il fondo, aggrappandosi alle zolle sporgenti di terra, ai superstiti arbusti. Diligentemente, la vecchia, con le sue ultime forze, di contadina che ha lavorato senza lamentarsi per tutta la vita, le va dietro: non discute le decisioni della santa, le considera già pattuite in cielo, e nel suo semplice, vecchio cuore, ha stabilito che così deve essere. La buca è profonda quindici o venti metri, e, in fondo, il fango è ancora molle, luccicante di vecchie pozzanghere.
Diretta e sicura come un automa - ma sempre piangendo - l'Emilia si distende supina nel fondo della buca, addosso alla parete scoscesa. Poi lentamente, facendosi aiutare dalla sua fedele, si cospar- ge tutta di uno strato di fango: così che dall'alto essa è invisibile, confondendosi col terriccio molle e luccicante e le pozzanghere.
Le lacrime, che le escono abbondanti e ininterrotte, sciogliendo il fango solo intorno agli occhi, vanno a raccogliersi in una minuscola pozza.
Quando l'Emilia è tutta coperta di fango (ed è ormai del tutto irriconoscibile, tanto da confondersi perfettamente col fondo della buca) come per una tacita intesa, la vecchia se ne va, arrampicandosi piano piano per la pista scivolosa che la porta in cima alla fossa, dietro al cui orlo scompare.
Il sole finisce ancora una volta con l'alzarsi, e con lo splendere tranquillo (come se tutta quella pena, caotica e mostruosa dell'alba, fosse stata un sogno). Preceduta da un parlottare di uomini, e da qualche colpo lontano - lungo i cantieri senza echi - ecco che d'im- provviso, con uno stridio assordante, pauroso, pazzo, la scavatrice si risveglia. Gettato quel primo urlo, però, tace. Ripiombano il silenzio, e la pace del sole. Ma solo per qualche istante. Perché ben presto l'urlo ricomincia - per non finire più. Segue a tratti, lacerante, i movimenti scattanti e ottusi della macchina, che comincia a muoversi, avanti e indietro, avanti e indietro, come animata da una sua propria volontà, sia pure capace solo di brevi e pazzeschi ragionamenti: raccogliere brutalmente una enorme quantità di terra in un posto, rovesciarla, con un lungo cigolio di dolore, in un altro.
Dal mucchio di fango che copre Emilia continuano intanto a colare le lacrime, che ora sono un vero e proprio rivolo: e la piccola pozzanghera che esse hanno formato, si va ingrandendo.
La scavatrice ha quasi esaurito il suo compito: l'enorme buca, nel fondo della quale è andata a rimpiattarsi Emilia, non c'è più. Essa è ricoperta quasi completamente, di un terriccio ancora fresco e molle; che la scavatrice, portando a termine, sempre urlando, la sua fatica, sta ancora rovesciando negli ultimi affossamenti rimasti: ma ormai, della gran buca, pare essersi persa ogni memoria.
Nel posto - che ormai sarebbe ben difficilmente riconoscibile - dove Emilia è rimasta sepolta - dapprima lentamente - con la minuziosa lentezza con cui si muovono gli insetti - poi sempre più impetuosamente - comincia ad uscire un sottile zampillo d'acqua. Sono le lacrime di Emilia: pian piano esse formano una nuova piccola pozza, e da questa un filo d'acqua, comincia a scorrere lungo il terriccio.
È a questo punto che si sentono intorno delle grida allarmate - dei richiami - un pianto; poi un brusio di molte voci, che parlano concitate. Da quale parte dei cantieri giungono? Dagli ultimi piani, vuoti contro il cielo? Dalle officine all'aperto, coi tavolacci e i mucchi di tondini sul fango?
Ma grida e voci sembrano piuttosto vicine: infatti vengono da dietro una stecconata che dà proprio sul terrapieno appena finito, dove gli occhi dell'Emilia, sepolta, fanno rampollare le loro lacrime. Ed ecco che da là di dietro - dalla stecconata di legno fresco, dove una mano, molto rozza, ha dipinto con del catrame gocciolante, una falce e un martello - escono in gruppo degli operai.
Vengono avanti sul terriccio molle a passo affrettato, continuando a parlare concitatamente. Tra loro, uno avanza a stento sorretto dai compagni, che gli tengono un braccio sollevato, più deli- catamente che possono. Il braccio è insanguinato, e il ferito si guarda intorno, camminando sgomento.
Come - quasi correndo - il gruppo è giunto vicino alla pozzetta delle lacrime, uno dei soccorritori, la vede, si ferma, e vi porta accanto, sospingendolo, il ferito: vi tuffa le mani a scodella, e con quell'acqua, senza pensarci su troppo (è un povero, vecchio operaio che certamente viene dalla campagna), lava la ferita al polso e alla mano del compagno.
Ma ecco che, non appena l'acqua comincia a lavare la carne dal sangue, comincia anche a guarirne la ferita: in pochi istanti il taglio si chiude, e il sangue cessa di scorrere.
Prima che gli operai, com'è naturale, comincino ad alzare le loro grida di stupore - abbandonandosi nelle manifestazioni ingenue e un po' sciocche, che gli uomini non sanno trattenere davanti alle cose di cui non hanno esperienza - c'è un momento di profondo silenzio. Le loro povere facce, scavate, dure e buone, sono volte verso quella poz- zetta, che scintilla, inconcepibile, sotto il sole.
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Teorema
Ficțiune generală2^ parte: Teorema - Pier Paolo Pasolini {Libro NON mio, NON ne detengo i diritti}