Story Of An Amaranthine Love

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Chiamami patetico, ma quest'inverno ho avuto un presentimento.

Si è annidata per qualche tempo, nei nostri letti e nelle nostre menti, l'idea che qualcosa di oscuro si celasse dietro carezze amorevoli e sorrisi sinceri... Era a causa di quelle parole maldestre che ti ho detto prima ancora di conoscerti? O a causa del tuo fiato sulla mia pelle, che ormai riconoscevo nella confusione del risveglio?

Le notti sono lunghe da passare da solo, lo so, è stata l'amara noia a condurti nella mia camera sotto il cielo d'estate? O è stata l'ispirazione geniale che solo gli artisti del buio possono comprendere? In ogni caso, mai completerò il quadro che hai interrotto, ma sempre ricorderò la perfezione nei colori dei nostri corpi e delle nostre ombre mescolate.

Erano violacei i segni che dipinsi sul tuo petto, sinopia che sarebbe stata ricoperta da vesti e prudenza, eri ancora solo uno schizzo per me, incompleto ma l'inizio di un capolavoro, ed ammisi a me stesso il desiderio che un giorno quelle macchie d'amore potessero rinnovarsi, tornando a sporcare la tua bianca pelle come tatuaggi.

Il lume di una candela illuminava fioco il pennello con cui ti dipingevo, poi un alito di vento la spense, dandoti i brividi e costringendoci a fermarci, mentre la mia pelle imperlata di sudore descriveva lo sforzo che, come artista, stavo compiendo nell'usare un solo colore per volta, dandoti ancora del tempo per abbandonare il tuo bianco passato, cercando di mostrarti la mia dote migliore: averti come Musa.

Eri immacolato e temetti di rovinarti, il tuo corpo sembrava scolpito nel marmo e fui geloso dell'artista che ti aveva plasmato, così perfetto da intimorire eppure così geniale da attrarre, un ossimoro senza senso che si colorò delle tue labbra, dei tuoi occhi, delle tue mani tremanti, della notte stellata e dei girasoli.

Avevi così tanta ammirazione per i miei dipinti, per me, ed io avevo così poco da offrirti... Sono un ragazzo con troppi piercing alle orecchie, le mani perennemente sporche di colore, incompreso, complicato, sempre troppo chiaro o troppo scuro, dipendente dal tempo e dalle stagioni, povero, imbranato, confuso ... Accanto ad un'opera d'arte come te, mi sono sempre sentito poco, eppure, in quella notte di mezza estate, ho pensato di essere perfino troppo.

Dopo la follia e la dolcezza, mentre il tuo respiro riempiva la mia aria ed il mio silenzio, ti ammirai nella tua nuova forma scomposta, e sperai di non aver privato il mondo di un capolavoro, imbrattando con i miei colori quel David di Michelangelo che eri. Nel sonno, poi, mugolasti qualcosa di simile ad un "ti amo", e mi dissi che i critici d'arte potevano anche andarsene a fanculo.

Fino a quella notte eri stato così semplice... Il tuo talento, il tuo talento era tutto in bianco e nero. La tua forma di espressione era la fotografia, più semplice della pittura, erano i momenti e la realtà, era un luogo sicuro, e non l'avrei mai contaminato con il mio caos, se non fossi stato tu (certo di trovarmi sveglio e nel pieno della creatività) ad entrare in camera mia nel mezzo della notte, chiudendo a chiave la porta, sfilandoti di dosso la vestaglia rossa e, rimasto nudo, fissando il pavimento sussurrare:«Rendimi arte, rendimi tuo».

Avrei voluto che i nostri colori rimanessero solo nostri, ma un solo bacio fu sufficiente ad incastrarci, una sola finestra aperta fu sufficiente a tradirci, ed una sola vicina di casa fu sufficiente a diffamarci. Era comune che due ragazzi condividessero l'appartamento alla nostra età, ma era inaccettabile che condividessero anche lo stesso letto e la stessa anima, per questo la paura precedette i fatti, e quando (mesi dopo la diffusione della notizia) tornasti a casa dall'università con un occhio nero, già sapevo che l'unico modo per proteggerti sarebbe stato perderti.

Ero consapevole che non te ne saresti mai andato da solo, per questo motivo ti pregai di farlo mentre i primi fiocchi di neve imbiancavano le strade, strade ormai macchiate del tuo sangue, strade che avrebbero dovuto farti venire nostalgia del tuo antico candore, della tua dimenticata sicurezza. Era difficile spingerti a scappare da qualcosa che amavi, era difficile indurti ad accettare uno stigma che non capivi, e pensai che sarebbe stato più facile mentirti, ma tu non eri altrettanto facile da convincere.

Ricordo ancora il sorriso sprezzante che affiorò sulle tue labbra, quando mi sfidasti a ripetere che no, non ti amavo più, davvero. Sapevi troppo, cara mia Musa.

Abbassai lo sguardo, la tua figura appoggiata alla ringhiera del balcone mentre una sigaretta pendeva ribelle dal lato sorridente delle tue labbra, i tuoi capelli corvini ed i tuoi occhi, assottigliati, scrutanti... No, non sarei riuscito a ripeterlo, non mentre la tua sola presenza disarticolava i miei pensieri e mi rubava il fiato.

Ti inchinasti di fronte a me, abbassandoti al mio livello, ricordandomi quanto fossi ridicolo nel mio tentativo di ripudiare la mia stessa opera, soffiasti del fumo grigio bruciandomi gli occhi, ed accarezzandomi le labbra con il pollice:«Chi ti ha rubato i pennelli, Taehyung?» sussurrasti, per niente scosso. Ti sfilai di mano la sigaretta e la spensi bruscamente nel posacenere, non volevo ombre dentro di te, e la piccola risatina che lasciò le tue labbra mi spezzò il cuore.

Mi voltai, ti accarezzai il viso, sfiorando alcune piccole escoriazioni sul tuo zigomo, i segni dell'ennesima aggressione, e con un filo di voce:«Ti prego... Vattene» supplicai, mentre una morsa mi stringeva la gola, impedendomi di trattenere un singhiozzo. «Io ti amo» rispondesti tu, continuando a fissarmi con quegli occhietti vispi ed imperturbabili, asciugando le mie lacrime come se neppure quelle potessero bastare a convincerti, e desiderai in quel momento più di mai, d'essere io la tela su cui tutti sputavano.

«Se mi ami, fai il tuo bene, scappa» provai un'ultima volta, cadendo in pezzi tra le tue dita. Mentre alcune lacrime stonavano con quel sorriso sempre meno sfacciato, consapevole:«Non posso privarti di me» sussurrasti, costringendomi ad esternare la mia paura peggiore, replicando:«Se non lo farai tu, un giorno potrebbe farlo qualcun'altro». La fredda aria carica di fiocchi bianchi neppure si avvicinava al gelo che ferì i nostri cuori, costringendoci a cercare casa in un abbraccio.

Stampasti un bacio sulle mie labbra mentre tenevi il mio viso con entrambe le mani, assaporammo l'uno le lacrime sulla pelle dell'altro, un vortice d'amore e di paura c'assalì, un buco nero ci inghiottì unendoci e le nostre anime, ancora una volta, formarono una sizigia.

Mesi dopo, mentre la natura sbocciava e gli amori si infiammavano, sentivo ancora il freddo dell'inverno nei brividi e nelle carezze che ormai ero costretto a dedicarmi da solo. Eri migrato lontano, ma non abbastanza da essere dimenticato, perché Platone odiava l'arte e dunque non ti avrebbe mai concesso di raggiungere l'iperuranio, ne ci avrebbe mai concesso di essere felici pur essendo divisi, e fu in quel periodo che cominciai a nutrire il presentimento di aver trovato la mia anima gemella in te.

Continuai a dipingerti nonostante la lontananza, sempre più scomposto, sempre più astratto, e quando riguardando le mie tele non riuscii più a riconoscerti, mi resi conto che quei colori assomigliavano sempre di più a me, e mi vergognai di aver confuso la tua perfezione con il mio caos. Arrivò però qualcuno pronto ad apprezzare quei quadri al posto mio... Più di quanto chiunque avesse, per altro, mai fatto, al punto da decidere di rappresentarmi in una vera e propria mostra d'arte, portandomi di nuovo, violentemente, a scontrarmi con te.

Esponevo a Parigi, città dalle mille allegorie, e tu, figlio della perfezione ossessiva dell'arte greca e delle pennellate graffianti di Van Gogh, non potevi che trovarti in uno di quei vicoli illuminati da fiochi lampioni e coronati dalle dolci note de "La Vie En Rose".

Della mostra, sinceramente, non poteva importarmi di meno. Non ero mai stato un pittore per il gusto di usare le mie tele come orgoglio personale, ero semplicemente costretto da qualche forma di necessità primordiale ad esternare quel qualcosa che mi spingeva ad imbrattare ogni superficie bianca, un meccanismo innato come quello che portò i primitivi a disegnare sulle pareti delle grotte, e certo, esporre a Parigi era un'opportunità incredibile, ma detto tra noi, era prima di tutto un'esca, o forse una trappola.

Platone, del resto, sulle anime gemelle aveva ragione, e quando finalmente potei tornare a macchiare la tua pelle immacolata con i miei colori, ebbi la conferma che anche il mio presentimento era giusto: i veri artisti tornano sempre dalla loro Musa.

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