Un Respiro.

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Giuro solennemente di non avere buone intenzioni..
Prima di iniziare la storia mi sembra doveroso fare un ringraziamento pubblico a @_itsori (profilo twitter) per la foto di copertina che ha creato. Rispecchia tutto quel che cercavo per questa storia. Quindi se volete vedere altre sue opere, conosciuta per le foto sui MetaMoro, passate sul suo profilo e datele un'occhiata. Merita tantissimo! Detto ciò, ci tenevo a precisare che questa non è una fanfiction in cui ci saranno storie d'amore - almeno credo, dipende dall'ispirazione che mi viene - quindi non aspettatevi di trovare Giulia De Lellis, la Tascione o Einar perché questa volta Irama sarà il solo e unico protagonista. Lui e il dolore che si porta dentro.



Era finita da poco la puntata quando Irama corse in sala relax; sentiva il bisogno impellente di allontanarsi da quei riflettori che lo stavano emotivamente soffocando.
Raggiungere la saletta era stato un gioco da ragazzi, aveva approfittato della distrazione di tutti, troppo occupati a fare le interviste per Witty, per sgattaiolare fuori dallo studio. Aveva retto fin troppo, due ore di pura agonia. Era stata la puntata più pesante in assoluto: aveva provato una strana pressione durante tutta la sua permanenza sul palco, a partire dalla lettera che aveva scritto a sua nonna - nascosto in un camerino senza telecamere piangendo a dirotto - e finendo con la canzone che le aveva dedicato subito dopo la sua scomparsa. Aveva una morsa che gli attanagliava lo stomaco, e quella era una sensazione ben peggiore delle sfide che gli aveva fatto affrontare Paola Turci, in cui gli avversari da sfidare erano tre e se solo avesse perso contro uno di loro era fuori.
Il cantante sentiva di stare per esplodere, aveva bisogno di allontanarsi da tutti quegli occhi indiscreti per almeno dieci minuti; doveva sfogare il dolore a modo suo. Si era nascosto in bagno per cambiarsi, lasciando tutta la sua roba nell'armadietto a lui assegnato. Una volta indossati i suoi vestiti mise il microfono dandosi un'ultima sistemata. Nel farlo iniziò a sentire le voci esaltate dei suoi compagni. Erano tutti su di giri, chi per un motivo e chi per un altro. Bryan, Emma e Sephora soprattutto.
Filippo avrebbe voluto congratularsi con loro, ma sentiva che quello non era il momento adatto; l'avrebbe fatto più tardi, in hotel magari, lontano da quel chiacchiericcio. Al momento non era mentalmente stabile per stare in mezzo alle persone: vedeva tutto appannato, il mondo intorno a sè era ovattato, faticava a captare qualsiasi cosa gli girasse intorno. Era conscio che, per mettere fine a questa sua implosione, doveva buttare fuori quel dolore che aveva dentro esorcizzando quei demoni a modo suo, e parlare non faceva parte della lista.
La porta del bagno venne aperta lasciando trapelare gli sguardi curiosi di chi si chiedeva cosa stesse facendo il cantante dagli occhi di ghiaccio. Irama ignorò tutti quanti facendo finta di non sentire. Sbatté l'anta dell'armadietto per chiarire il concetto che era stato afferrato da tutti all'infuori di Einar, che non intendeva sentir ragioni. Doveva farlo parlare ad ogni costo, non c'era verso di fargli mollare la presa. Fregandosene della testardaggine del compagno, mirò alla sua via d'uscita: la porta. Si stava proiettando verso di essa quando il cubano ci si piazzò davanti con l'intento di non muoversi da là. Irama non doveva muoversi da quella stanza, decretò.
«Einar, levati o ti faccio male. Dico sul serio, spostati!» minacciò il più piccolo facendo zittire di colpo l'intera sala. Alcune teste uscirono persino dai bagni per assistere alla scena. Cercò di rendere quella situazione il più breve possibile. Con uno spintone spostò il ventiquattrenne, che lo stava tenendo per il polso, venendo trascinato di conseguenza dalla sua stessa rabbia.
Fu proprio quel tipo di contatto che lo fece scattare; stava per impartigli un pugno quando Biondo si mise in mezzo bloccandogli qualsiasi tipo di movimenti e intimando Einar di lasciare l'amico.
Nel momento stesso in cui successe il fatto, la porta si aprì facendo entrare Rudy Zerbi che bloccò la discussione in corso.
«Cosa sta succedendo qui?» inveì con trono gravoso rendendosi conto della situazione in cui si era ritrovato.
«Niente!» rispose Irama divincolandosi dalla stretta di Biondo per poi sorpassare il professore ignorando i suoi richiami.
Corse verso la porta d'uscita e una volta fuori respirò a pieni polmoni.
Sapeva che non era abbastanza. Puntò il primo ostacolo che si era trovato davanti a sè e colpì senza ripensamenti; si sfogò ignorante il dolore che gli stava lacerando la pelle, più si buttava sul dolore fisico e meno pensava a quello mentale. Non si rese conto del tempo che passava tra un colpo e l'altro, si bloccò solo quando qualcuno più grosso di lui lo spinse atterrandolo. Non vide chi fosse, sapeva solo che l'adrenalisa l'aveva abbandonato lasciandolo senza fiato, senza nemmeno un briciolo di forze.
Crollò accasciandosi contro l'albero; appoggiò la testa contro la coerteccia e chiuse gli occhi nel tentativo di inalare più aria possibile. Rimase in quella posizione per un paio di minuti e quando decise di aprirli si ritrovò davanti una schiera di professori: c'era chi aveva gli occhi puntati su di lui e che consfabulava con sguardo preoccupato.
«Sto bene!» precisò, prevedendo l'ondata di domande che sarebbero arrivate nel giro di pochi secondi. Era sicuro gli avrebbero chiesto un sacco di perché.
«Vatti a far vedere le mani, sei pieno di sangue!» ordinò Carlo Di Francesco non prendendo in considerazione nemmeno quel che aveva detto.
Fece come gli venne detto e si recò in quella che era l'infermeria, una classica camera bianca munita di lettino e di kit di pronto soccorso. Una volta seduto sul lettino si esaminò le mani: aveva le dita tutte insanguinate e le nocche martoriate. Ci era andato già di brutto, pensò, e solo in quel momenti sentì davvero il dolore fisico. Provò più volte ad aprire e chiudere le mani e si ritrovò a peggiorare la situazione strizzando gli occhi per il bruciore. Solo in quel momento si rese conto che quel suo sfodo non aveva liberato in lui nessun demone perché il peso addosso lo sentiva ancora. La porta si aprì ed entrò il medico del programma che gli fasciò entrambe le mani raccomandandogli il riposo assoluto e il divieto di toccare alcuno stumento.
Entrò anche Einar, preccoupato per il suo compagno. Era in momenti come quelli che lo detestava; voleva essere proprio come lui, in grado di dimostrare le sue debolezze.
«Sto bene!» ripetè mentendo non solo a lui, ma anche a sè stesso.
«Non stai bene, Ira. Che succede?» gli chiese fissandolo.
Il biondino abbassò lo sguardo tirandosi indietro. I ruoli si erano invertiti, di solito era il più piccolo colui che si imponeva mentre il più grande si ritraeva. Eppure erano state tocca delle corde che ferivano nell'animo e Irama non poteva fare altro che chiudersi a guscio sfogandosi nel suo modo: facendo musica.
«Parla con me!» lo supplicò Einar perdendo imrpovvisamente la sicurezza che aveva acquisito.
«Ho bisogno di una chitarra!» decretò alzandosi dal letto e raggiungendo una delle stanzette di canto. Prese la chitarra iniziando a strimpellarla, alla ricerca delle note giuste. Ad ogni giro abbinava delle parole. Scriveva, scriveva e scriveva ancora; sembrava un fiume in piena, non c'era fine. Entrambi stettero le ore in quella stanza, Einar non lo mollò nemmeno per un minuto, stette con lui anche quando entrarono tutti e quattro i professori che volevano parlare con Irama cercando di capire cosa fosse successo. Erano convinti che, quello del biondino, fosse un capriccio, ma non capivano che c'era dell'altro, che il non aver preso la maglia del serale non era una cosa che lo toccava. Con o senza il serale avrebbe continuato a fare la sua musica. Niente e nessuno l'avrebbe fermato. Non avevano capito che il centro di tutto era quella maledetta lettera, quell'esposizione mediatica in cui lui era il protagonista. Aveva scritto una lettera a cuore aperto, nascosto in un camerino, lontano dalle telecamere e da occhi indiscreti. Scrivere quell'epistola era stato straziante: aveva pianto come un bambino, perché ricordare gli faceva troppo male, ma era l'unico modo per presentare Un Respiro, il brano che aveva scritto dopo la morte di sua nonna, un pezzo scritto appositamente per lei. Detestava anche solo pensarci, più pensava a lei e più rimpiangeva tutte le parole che non le aveva mai detto. Eppure su quel palco - così come al funerale - non aveva versato nemmeno una lacrima e nessuno se n'era accorto.

Non ascoltò una singola parola di quel che dissero, fissò un punto indefinito spegnendo il cervello. Visto da fuori sembrava essere in catalessi. Nessuno riusciva a capire che non voleva parlare, che non se la sentiva e che sicuramente quello non era il momento adatto per farlo ragionare. Non capivano che ce l'aveva proprio con loro e con la mancanza di tatto che avevano avuto - perché se con Einar avevano speso parole di conforto, con lui si erano messi a commentare altre esibizioni. E non era giusto, perché non dimostrare le proprie fragilità non rende le persone meno deboli.
«Irama, con te stiamo parlando!» lo rimproverò la Turci.
Non le aveva nemmeno dato retta, stette in silenzio concentrandosi sul suo respiro.
L'unico che andò oltre decidendo che per quel giorno potesse bastare fu Carlo. Disse, però, che ne avrebbero riparlare il giorno dopo. Così Irama prese la chitarra e se la portò dietro in sala relax dove gli altri, appena videro il cantante entrare, si ammutolirono fissandolo come se fosse un animale in gabbia.
«Non c'è niente da vedere!» sbraitò Einar seguendolo in bagno con Biondo.
«Che è successo, oh?» chiese Biondo preoccupato.
Irama si nascose dalle telecamere e chiudendo gli occhi si lasciò andare contro il muro. Non pianse però. Si isolò nuovamente da chiunque, persino da Biondo e da Einar che cercavano un contatto con lui. Avevano entrambi capito che stava soffrendo, e sapevano che il dolore più terribile è quello che ti entra nelle vene, quello che nascondi a tutti con il silenzio.

Che Vuoi Che Sia || IramaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora