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Io e mia madre viaggiavamo verso l'aeroporto con i finestrini dell'auto abbasati. Al'Avana c'erano ventiquattro gradi, il  cielo era il blu e pulito. Nella penisola di Olympia, nel nordovest dello Stato di Washington, nascosta in una fitta nebbia, esiste la cittadina di Forks. Fu da quella città e dalla sua pioggia che mia madre fuggì, portandomi con lei quando avevo solamente pochi mesi. Fu in quella città che mi obbligarono a passare un mese di vacanza, ogni estate, fino ai miei quattordici anni. Nelle tre estati precedenti era stato mio padre, Alejandro, a trascorrere con me un mese Al'Avana. E a Forks andavo in esilio, una decisione che avevo preso volontariamente seppure con grande disgusto. Amavo L'Avana. Amavo il sole e il caldo soffocante. Amavo quella città energica e caotica.
«Camila» mi ripeté mia madre un'ultima volta, «non sei obbligata». «Ci voglio andare» mentii spudoratamente, non ero mai stata brava a mentire.
«Salutami Alejandro».
«Certo».
«Ci vediamo presto, puoi tornare quando vuoi. se hai bisogno ti vengo a prendere» mi pregò un ultima volta, ma capivo dal suo sguardo che dietro alla promessa c'era il sacrificio. Mi abbraccio per un minuto, poi salii sul aereo, guardando la mia amata Cuba farsi sempre più piccola, svanendo nelle nuvole. Immaginai già l'imbarazzo che ci sarebbe stato tra me e Alejandro, sembrava fargli davvero piacere che, per la prima volta venivo a vivere da lui con l'intenzione di rimanerci un po'. Mi aveva già iscritta ad una scuola e mi avrebbe dato una mano a cercare una macchina tutta mia.
Quando atterai a Port Angeles, pioveva, molto prevedibile per un posto del genere. Mi ero già rassegnata al freddo e alla pioggia dicendo addio per sempre al sole. Desideravo una macchina tutta mia principalmente perché mi rifiutavo di farmi portare in giro da mio padre, sapendo quanto mi metterebbe in imbarazzo. Alejandro mi aspettava con l'auto della polizia, anche questo era prevedibile, per la gente di Forks era l'ispettore capo Cabello.
Alejandro mi accolse a braccia aperte, visibilmente a disagio, «è un piacere rivederti mija», mi disse sorridendo aiutandomi a farmi scendere dall'aereo senza cadere. «Non sei cambiata molto, Sinuhe come sta?».
«Mamma sta molto bene. È bello rivederti papà», mia madre non voleva che lo chiamassi Alejandro. Avevo poche valigie, la maggior parte dei vestiti che avevo Al'Avana erano troppo leggeri e estivi per Forks. «Ho trovato una buona macchina per te, è stato un affarone!» mi annunciò una volta allaciate le cinture. «È un pick-up, un Chevy».
«Dove l'hai trovato?».
«Ti ricordi Manuel Mendes?, quello che sta a La Push?». La Push è la microscopica riserva indiana della costa.
«Si».
«È finito sulla sedia a rotelle», continuo Alejandro, in assenza di una mia risposta, «e non può guidare, perciò mi ha offerto il pick-up ad un prezzo davvero basso» mio padre insistette ancora. «Alej... papà, io di auto non so niente, se si rompesse non saprei dove mettere le mani, e non potrei permettermi un meccanico...».
«Sul serio Mila, quell'aggeggio va alla grande, fidati e poi te l'ho già comprato, come regalo di benvenuto» mi guardo con aria speranzosa. «Non ce n'era bisogno papà. Mi sarei comprata una auto con i miei soldi» cercai di convincerlo. «Non m'interessa, voglio che tu qui sia felice», quando pronunciò queste parole aveva gli occhi fissi sulla strada, inutile aggiungere che la possibilità di essere felice a Forks mi sembrava irrealizzabile. Guardai fuori dal finestrino, il panorama era non male, era tutto verde: gli alberi verdi, i tronchi ricoperti dal muschio verde, l'erba che ricopriva il terreno verde; era un pianeta verde. Alla fine giungemmo a casa di Alejandro, e lì parcheggiato sul vialetto di fronte alla casa, c'era il mio "nuovo" pick-up. Era di un rosso scolorito, con i paraurti grossi e arrotondati e un abitacolo che sembrava un bulbo. Per portare la mia roba in camera ci volle un solo viaggio, ringraziai mio padre per avermi lasciata da sola in camera. La mia camera era quella a ovest e la finestra dava sul prato di fronte a casa. Era come me la ricordavo, mio padre aveva provveduto solo a cambiare il letto e a metterne uno più grande e ad aggiungere una scrivania. Sulla scrivania c'era un vecchio computer, e un cavetto per il collegamento al modem, così che potessi restare in contatto con mia madre. C'era solo un piccolo bagno al secondo piano, che avrei dovuto cindividere con mio padre. Era bello stare da sola senza sforzarmi di sorridere o sembrare felice, non ero dell'umore giusto per una crisi di pianto.
La scuola superiore di Forks vanatava la spaventosa quota di 357 iscritti più uno, dopo il mio arrivo. Io sarei stata la ragazza nuova che viene dalla grande città.
Riposi i vestiti nella vecchia cassetiera di pino e dopo essermi sistemata in bagno cercai di prendere sonno, con scarsi risultati, infatti quela notte non riuscii a dormire tanto, neanche dopo aver pianto a dirotto.
La colazione con mio padre fu tranquilla, mi augurò buona fortuna per il mio primo giorno di scuola, lo ringraziai sapendo già di non avere speranze. Non volevo arrivate troppo in anticipo a scuola, ma non ce la facevo a restare a casa. Indossai il giubbotto e uscii sotto la pioggia. Entrai nella mia nuova macchina, era asciutta e ordinata, Manuel o Alejandro ovviamente lo avevano ripulito, ma i sedili odoravano ancora di tabacco. Trovare la scuola non fu difficile malgrado non ci fossi mai stata. Sembrava una raccolta di case tutte uguali color mattone. Parcheggiai davanti alla segreteria, almeno così diceva il cartello. Uscii di malavoglia dall'abitacolo e mi diressi in segreteria. L'ufficio era piccolo, c'erano piante dappertutto, come se fuori non ci fosse abbastanza verde. La donna dai capelli rossi dietro la scrivania alzò lo sguardo. «Posso esserti utile?».
«Sono Camila Cabello», la informai e subito vidi i suoi occhi illumianrsi, mi aspettava, proprio come gli altri, ero già la notizia del giorno. «Qui c'è il tuo orario, assieme ad una mappa della scuola» mi porse parecchi fogli sorridendo. Studiai la mappa un'ultima volta prima di avviarmi a lezione, trovai la classe e poco prima di entrare pensai di svenire. L'aula era piccola, trovai posto in ultima fila ignorando le occhiate strane e curiose dei miei nuovi compagni. Dopo due lezioni suonò finalmente la campanella, e una ragazza seduta nella fila dietro, si affacciò, «sei Camila giusto? che lezioni hai adesso?» era poco più bassa di me con i capelli biondo scuro, «beh ho educazione civica, edificio 6» risposi sorridendole, «ho una lezione vicino a quell'aula, ti posso accompagnare» si alzò dirigendosi verso la porta. «Mi chiamo Ally» aggiunse. «Così, c'è una bella differenza tra qui e Cuba, eh?» chiese lei. «Già, anche troppa per i miei gusti». Girammo attorno alla mensa e passammo accanto alla palestra, diretti verso l'ala sud della scuola. Ally mi accompagno fino all'ingresso dell'aula, «beh, buona fortuna» disse mentre aprivo la porta. «Magari ci vediamo a qualche altra lezione». Gli rivolsi un sorriso ed entrai.
Il resto della mattinata trascorse allo stesso modo, dopo due lezioni iniziai a riconoscere qualche volto. La ragazza di prima mi accompagnò im mensa, dove mi fece conoscere i suoi amici. Fu in quel momento, seduta a pranzo con sette estranei, di cui mi ricordavo il nome solo di due, che li vidi per la prima volta. Erano seduti nell'angolo più lontano e isolato della mensa. Erano in quattro. Non parlavano e non mangiavano, benchè ognuno di loro avvese di fronte un vassoio pieno di cibo. Non mi stavano squadrando, a differenza del resto degli altri studenti, perciò potei restare ad osservarli tranquillamente. Non si somigliavano affatto. Uno di loro era biondo, e snello, la più bassa delle tre ragazze aveva i capelli mori, corti e scompigliati. La più giovane li aveva i capelli mori, che le accarezzavano la schiena con un'onda delicata, la terza aveva una folta chioma di capelli corvini, era vestita tutta di nero, a differenza degli altri. Ognuno li loro era pallido come il gesso, più pallidi di tutti gli studenti, gli occhi cerchiati da ombre pesanti, simili a lividi. Eppure, il resto dei loro lineamenti era dritto, perfetto e spigoloso. Ma non era questo il motivo per cui non riuscivo a distogliere lo sguardo. Li fissavo perché erano tutti di una bellezza disumana. Erano volti che si aspetterebbe di vedere solo sulle pagine di un giornale di moda. «E quelli chi sono?» chiesi alla ragazza della lezione di spagnolo. La ragazza fece una risatina imbarazzata e come me guardò il tavolo. «Sono Lauren e Halsey Jauregui assieme a Lucy e Troy Vives, vivono tutti assieme al dottor Jauregui» disse con un filo di voce.
Guardai di sottecchi quella bella ragazza, che ora osservava il proprio vassoio e faceva a pezzi una ciabella con le lunghe e pallide dita. La sua bocca si muoveva veloccissima, le sue labbra perfette si aprivano appena. Mi sembrava chr stesse parlando, piano, con loro.
«Sono... molto carini» cercai di minimizzare, ma non ero credibile. «Si!» concordò Normani con un'altra risatina. Durante tutta la conversazione, non potevo fare a meno di lanciare occhiate al loro tavolo. Mentre li studiavo, la corvina alzò lo sguardo incrociandolo con il mio, e stavolta la sua espressione era incuriosita. Mi voltai di scatto prima di avvampare sotto il suo sguardo, quasi divertito, «chi è quella con i capelli neri?» chiesi. La sbirciavo con la coda dell'occhio, lei continuava a guardarmi, senza lo sguardo squadrante che avevano fatto tutti gli altri. «Si chiama Lauren Jauregui, è uno schianto, ovviamente non sprecare il tuo tempo, non esce con nessuna» disse continuando a mangiare. Dopo qualche minuto, i quattro si alzarono da tavola assieme, aggraziati.

Ci dirigemmo verso l'aula di biologia in silenzio, e quando entrai tutti i tavoli tranne uno erano occupati. Accanto al corridoio centrale, riconobbi i capelli corvini di Lauren Jauregui, seduta accanto all'unico posto libero. Camminando lungo le file di banchi per presentarmi al professore e fargli firmare il modulo, la tenevo d'occhio, di sottecchi. Quando gli passai accanto, all'improvviso si irrigidì. Mi fissò ancora una volta, con la più strana delle espressioni sul volto: era ostile, furioso. Guardai subito altrove, sbalordita, rossa di vergogna. Il signor Banner firmò il modulo e mi diede un libro, senza perdersi in presentazioni. Sentivo che saremmo andati molto d'accordo. Ovviamente, non avendo scelta, mi fece sedere nel l'unico posto libero, in fondo all'aula. Tenni basso lo sguardo, mentre mi accomodavo vicino a lei, ancora scossa dall'occhiata ostile di poco prima. Non osavo guardarla, mentre sistemavo libro sul tavolo e mi mettevo a sedere, ma con la coda dell'occhio la vidi cambiare posizione. Si stava allontanando da me, seduta sul bordo della sedia e voltata dall'altra parte. Senza farmi notare, mi annusai i capelli. Profumavano di fragola, come il mio shampoo preferito. Come odore mi sembrava piuttosto innocente. Lasciai cadere i capelli sulla mia spalla destra, a chiudere il sipario tra di noi, e cercai di prestare attenzione all'insegnante. Purtroppo la lezione era sull'anatomia cellulare, un argomento che avevo già studiato. In ogni caso presi appunti, senza staccare gli occhi dal quaderno. Non potevo trattenermi dallo sbirciare di tanto in tanto, attraverso la ciocca di capelli, verso la strana ragazza che mi era seduta accanto. Non si rilassò nemmeno per un istante, durante l'intera lezione rimase rigida, sull'orlo della sedia, il più lontano da me. Riuscivo a vedere il pugno chiuso appoggiato sulla gamba sinistra, i tendini in tensione sotto la pelle pallida. lontano possibi poggiato e pallida. Non riusciva a rilassare neanche quelli. Teneva le maniche della camicia nera arrotolate fino al gomito vambraccio che ne spuntava era sorprendentemente sodo muscoloso. Non era affatto smilzo come mi era sembra canto alla sorella corpulenta. La lezione pareva durare più delle altre. Era perché finalmente la giornata stava finendo, o perché aspettavo che quel pugno si aprisse? Non lo rece; resto sempre talmente immobile che sembrava non respirasse nemmeno. Cosa c'era che non andava? Si comportava sempre cosi? Non poteva essere causa mia. Non sapeva niente di niente di me. Sbirciai di nuovo verso di lei, e me ne pentii. Mi stava di nuovo squadrando, con gli occhi smeraldi pieni di disprezzo. Mentre mi ritraevo, stretta nella sedia, improvvisamente pensai a quel modo di dire: se sguardi potessero uccidere...
In quel momento la campana prese a squillare, io sobbalzai e Lauren Jauregui si alzò dal suo posto con un movimento fluido, era molto più alta di quanto avessi immaginato, dandomi le spalle, e prima che chiunque altro avesse lasciato la classe lei era già fuori dalla classe. Io rimasi pietrificata mio posto, incredula, a guardarla. Che cattiva. Non era giusto. Iniziai a raccogliere le mie cose lentamente, cercando di non mettermi a piangere. Per qualche motivo, il mio umore e i miei occhi erano legati a doppio filo. Di solito, quando ero arrabbiata piangevo, una reazione umiliante. «Sei tu Camilla Cabello?», chiese una voce maschile. Alzai lo sguardo e vidi un ragazzo carino, con viso bambino, capelli biondo cenere raccolti in punte ordin che mi sorrideva con aria amichevole. Evidentemente, lui non pensava che avessi un cattivo odore «Camila», precisai con un sorriso.
«lo sono Austin».

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⏰ Ultimo aggiornamento: Jan 13, 2019 ⏰

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