Quel posto mi metteva i brividi. Non ci volevo stare, ma era per il mio bene.
Continuavo a far preoccupare i miei. Dovevo trovare una soluzione e quindi anche se stare lì era una tortura e anche se non ero poi tanto sicura che mi avrebbe giovato continuavo a ripetermi che era per il mio bene.
La camera che mi avevano assegnato era anonima. Arredata con mobilio esclusivamente bianco. Armadio bianco, comodino bianco, comò bianco, letto a baldacchino bianco, lenzuola, cuscini e trapunta bianche... che dire? Mi trovavo all'inferno! Io detestavo tutto ciò che fosse bianco oltre che rosa e azzurro... e tutti quei variopinti colori pastello dell'arcobaleno.
Ero una ragazza strana? Ebbene sì, ero un tipino un po' sopra le righe.
Il grande salone comune non era da meno. Numerosi tavoli con sedie, il bancone dove ci veniva servito il pasto, gli scaffali, gli armadi, le pareti e persino i vassoi erano bianchi. Tutto era di un bianco nauseante. Se poi volevamo chiudere in bellezza, in sottofondo strimpellava perennemente una qualche sinfonia di un qualche grande autore di musica classica. I violini non mancavano.
Era esattamente il mio inferno personale!
Nonostante tutto, continuavo a ripetermi che tutto quello era solo per il mio bene.
Avrei trovato la soluzione ai miei problemi in quel posto. Mi sarei impegnata. Sarei guarita una volta per tutte.
Il primo giorno fu il più traumatico per la quantità di input arrivati direttamente a quel mio povero cervellino disturbato.
Mi avevano affiancato un’infermiera che sembrava un lottatore di wrestling travestito da donna. Sì, forse come nuova ospite non sapevano che aspettarsi, ma non è che fossi un energumeno! Il mio metro e sessanta
non aveva mai spaventato nessuno. Magari avesse spaventato!!! Non mi sarei mai trovata in quel posto!
Nonostante il suo aspetto bruto, Miss Wangel era un vero angelo. Si preoccupò d’istruirmi sugli usi del posto, gli orari, le varie attività, i luoghi di svago, regole su regole su regole da capogiro, ciò che era permesso e ciò che non lo era. Pregai Dio ogni minuto di quella lunghissima giornata di non essere vittima di uno dei miei attacchi di panico. Infine, la carissima donna mi spiegò a cosa servivano le diverse pasticche che ero costretta ad assumere durante l’arco della giornata.
Antidepressivi. Per lo più. Oltre a qualche integratore di vitamine.
Sarei uscita da quel posto senza dover usare quella roba. Era il mio scopo. Dovevo uscire di lì ed essere in grado di vivere la mia vita come una normalissima ragazza di vent’anni. Avrei trovato un lavoro e preso casa.
Mi sarei staccata da sotto le ali protettrici della mia famiglia.
Miss Wangel mi salutò alle dieci e mezzo della mia prima sera in quel posto. Mi diede il confetto magico che mi avrebbe aiutato a dormire e con un “Non ti preoccupare, ci siamo noi” mi diede la buona notte. Spense la luce e mi lasciò da sola in quella che sarebbe diventata la mia stanza per i successivi due mesi.
Una volta da sola, nell’oscurità di quella camera che grazie a Dio non era la mia, m’illusi di poter dormire sonni tranquilli com’era giusto che fosse.
Appunto: m’illusi.
Mi addormentai quasi subito, nonostante un senso di angoscia che cominciava ad affacciarsi nella mia mente.
Succedeva sempre così: in principio sognavo semplicemente cose belle e serene. Ma poi tutto d’un tratto i miei sogni prendevano un’altra drastica e terribile piega. Mi svegliavo nel più totale panico urlando,
piangendo, prendendo a calci e pugni e respingendo violentemente chiunque in quel momento fosse accorso in mio aiuto. Semplicemente nessuno doveva azzardarsi neanche a sfiorarmi in quei momenti.
Quella era la mia condanna.
In psicologia si chiamavano “Terrori Notturni”.
Ne ero affetta da sei anni, più o meno. Da quella maledetta festa.
Ma non ero andata lì per rivangare quell’orribile vicenda che cercavo con tutta me stessa di dimenticare, consapevole già essere la causa scatenante di tutto. Ero lì solo ed unicamente per guarire. Volevo guarire.
Punto e basta. E ci sarei riuscita questa volta. Ero più che determinata questa volta.
Mi svegliai che fuori albeggiava. Ero sudata. Avevo il fiatone. Due uomini in tenuta bianca mi tenevano ferma uno ad ogni lato, e Miss Wangel stava preparando una siringa di sedativo che mise immediatamente via non appena notò che ero calma, lucida e ricettiva.
“Tesoro… abbi pazienza, sei solo all’inizio. Col nostro aiuto guarirai! “ mi assicurò accarezzandomi dolcemente la guancia.
Gli uomini mi mollarono subito. Forse conoscevano la mia storia clinica e quanto fosse problematico qualunque tipo di contatto.
Trascorse ben presto la prima settimana. Prendevo regolarmente le mie pasticche colorate, seguivo i vari seminari sui diversi modi di “rifiorire” in quel posto, mi recavo puntualmente alla mia seduta di psicoanalisi col dottor Ross. Parlavamo. Parlavamo a lungo. Non riusciva a spiegarsi come mai nonostante avessi riconosciuto la causa di tutti i miei problemi ancora non ero riuscita a superare la cosa.
Il dottor Philip Ross era un omaccione simpatico dai capelli rossi ormai sbiaditi dall’età che mi aveva in cura da quattro anni. Da quando una sera i miei terrori notturni mi avevano portato sul tetto di casa mia e i miei mi avevano sorpresa in piedi sulla grondaia a braccia aperte e i capelli al vento aspettando non so che cosa, molto probabilmente che Leonardo Di Caprio mi venisse salvare!
Mia mamma si era spaventata a tal punto che ebbe bisogno anche lei di qualche seduta col caro dottor Ross, che oramai era diventato parte della nostra famiglia.
In principio passavamo le ore semplicemente a guardarci, io guardavo lui in cagnesco e lui guardava me con strafottenza, per ribadire il fatto che comunque lui avrebbe riscosso la sua parcella e io sarei rimasta a sguazzare nella merda. Poi con molta pazienza cominciò a guadagnarsi il diritto di parlarmi e col passare del tempo la mia fiducia, di cui nessuno godeva. Lui era il mio unico amico. L’unico con cui parlavo. L’unico che mi ascoltava. L’unico a cui avevo raccontato ciò che mi era successo sei anni prima.
Quel posto era suo. Non era propriamente una clinica psichiatrica per malati mentali. Si trattava piuttosto di una clinica di riabilitazione mentale. Roba da ricconi e da star annoiate. Gente che si sentiva sotto stress o soggetta ad attacchi di panico. L’unico caso clinico serio ero io. La ragazzina che strillava nel sonno. La sonnambula urlante. La Banshee onirica. Erano tanti i nomi che mi avevano già affibbiato le persone ospitate in quel posto.
Ma io continuavo per la mia strada.
Non me la prendevo.
Avevano ragione.
Erano tutti nomi appropriati.
Anche se mi sarebbe piaciuto spaccare veramente la faccia ad ognuno di loro, ma non volevo aggiungere alla lista delle mie patologie anche la mancanza di controllo della rabbia.
Per questa ragione evitavo come fosse la peste il salone comune, la piscina e il giardino. Inoltre l’idea di vedere più di una decina di persone, di mangiare in loro compagnia, di respirare la loro stessa aria, di correre il rischio di essere solo sfiorata anche accidentalmente da una delle loro spalle mi metteva ansia e le crisi di panico erano sempre in agguato, pronte a venir fuori nei momenti più sbagliati.
Dopo la prima settimana il mio caro amicone dottor Ross notò questo mio tentativo disperato di isolamento.
Dire che fosse particolarmente contrariato è un eufemismo. Era incazzato nero!
“Sei venuta qui di tua spontanea volontà, Ayris!” mi aveva rimproverato paonazzo in viso quel mattino durante la nostra solita seduta “Vuoi guarire. Mi hai detto tante volte che la cosa che vorresti di più a questo mondo è guarire dal tuo stato psicolabile… ma non ci riuscirai se tu per prima ti rifiuti di prendere di petto la tua profonda avversione verso il prossimo!”
“La mia non è propriamente avversione verso il prossimo, Doc…” mormorai cominciando a torturare il polsino della felpa distogliendo gli occhi dal suo volto che sembrava diventare sempre più rosso, ancora un po' e avrei assistito al manifestarsi di un ictus dal vivo!
“Mi vuoi prendere per il culo??!” mi strillò facendomi sussultare sulla sedia, quel linguaggio veniva fuori proprio quando lo facevo incazzare sul serio e lo usava solo con me “… Se non vedo progressi posso anche rimandarti a casa e decidere di non seguirti più!...” minacciò poi serio, sgranai gli occhi, non poteva dire davvero, cos’avrei fatto io?! “… Sono anni che i tuoi mi pagano per vedere un minimo di miglioramento… ma tu… lo sai, ti sono affezionato come fossi una figlia, non puoi continuare a sabotare ogni tentativo di terapia!!! Se non ti decidi a darmi qualche riscontro positivo vuol dire che io non posso fare più niente per te… sarebbe meglio non far buttare all’aria altri soldi ai tuoi e non far perdere tempo a me!”
“No… Doc!!!... Non-non puoi dire sul serio!!!” ed eccolo lì: l’attacco di panico che sivnascondeva! Gli occhi mi pungevano e un nodo cominciò a stringermi la gola. Non riuscivo a respirare. “… Io… non… non lo faccio apposta!!!... È più forte di me!!!” cominciai a piangere scuotendo la testa letteralmente terrorizzata da quell’eventualità.
“Accidenti, piccola! Adesso non ti far prendere dal panico…” mi sussurrò alzandosi e venendomi vicino ma senza toccarmi “… respira… ricordati di respirare come ti ho insegnato: inspira...” inalò forte l’aria riempiendo i polmoni, cercai di fare come lui “… e adesso espira…” buttò fuori l’aria rumorosamente, io lo seguii a ruota
guardandolo fisso in quei suoi occhi nocciola “… brava, ancora: inspira… espira, ok, ancora… inspira ed espira, ci sei, di nuovo, inspira ed espira… meglio?” annuii, riuscivo a respirare, adoravo quel suo potere su di me.
“Ti prego… mi sforzerò di seguire di più le tue indicazioni!!!... Non mi voltare le spalle, per favore!!!” gli promisi disperata con i pugni serrati.
“Contavo su questa promessa!” mi sorrise bonaccione tornando al suo posto dall’altra parte della scrivania, aveva giocato con le mie reazioni e aveva ottenuto il suo scopo, gran figlio di puttana! “Voglio che da oggi tu t’impegnassi solo a consumare i tuoi pasti in salone.” mi disse guardandomi con decisione, “Puoi anche sedere da sola ad un tavolo se questo ti fa stare meglio,l’importante è che tu stia in mezzo alla gente… un passo per volta!”
“Mmm… affare fatto!” biascicai con disappunto riprendendo a torturare il polsino.
“Faremo tutto con i tuoi tempi, non ti preoccupare… l’unica cosa che ti chiedo è di provarci, scricciolo… ne va della tua salute mentale… ricorda che sei qui per guarire!”
“Ok…” mormorai alzando lo sguardo sul mio dottore. Aveva centrato il bersaglio. Ricordarmi di essere là in quell’orribile posto solo per guarire era l’incentivo giusto.
Per il resto della mattinata mi chiusi in camera per fare i miei esercizi fisici e mentali. Dovevo entrare nell’ottica che quello che dovevo fare per pranzo era un passo invisibile per l’umanità ma un grande, enorme passo per me. Il primo passo verso la guarigione.
Più si avvicinava il momento di andare e più dovevo concentrarmi per riuscire a respirare. Ogni tanto dimenticavo che i polmoni dovevano funzionare autonomamente e restavo in apnea!
Varcai la soglia del grande salone comune col cuore che batteva all’impazzata in gola, i polmoni contratti in quella che poteva essere una smorfia tra la popolazione dei polmoni e la morte in faccia. Già seduti c’erano un sacco di persone che chiacchieravano beatamente tra di loro. Sembrava di essere più che altro in uno di
quei ristoranti di country club tanto snob che odiavo da morire. La gente non mi notò neanche di striscio.
Penso che non mi avrebbero notato neanche se fossi entrata camminando sulle mani a testa in giù!
I tavoli elegantemente apparecchiati e drappeggiati da lunghissime tovaglie bianche erano tutti occupati da uomini e donne agghindati e truccati neanche fossero in un locale alla moda, solo ad un tavolo c’era una sola persona. Un tavolo grande. Lui sedeva in un angolo e aveva lo sguardo fisso nel suo piatto, come se quell’arrosto e quelle patate gli stessero raccontando la storia del loro grande amore.
Stonava con tutto l’ambiente. Era l’unico punto nero in un mare di bianco tra tanti inutili puntini colorati. Nei suoi vestiti scuri, i tatuaggi che sbucavano da sotto le maniche fin sulle nocche e con quell’aria tetra da anima dannata concentrato in una discussione telepatica con le pietanze nel suo piatto non aveva niente a che vedere con il resto degli ospiti di quel posto.
Strinsi il vassoio tra le mani e mi avvicinai all’angolo opposto. -Inspira ed espira, Ayris!- Gli avrei chiesto se potevo sedere molto lontano da lui. Ma rimasi lì in piedi senza riuscire a proferire alcun suono.
“Beh?!... Che hai da fissare, ragazzina? La mammina non ti ha detto che è maleducazione?!” esclamò notandomi dopo alcuni secondi da sotto il suo ciuffo di capelli corvini con un paio di occhi di un azzurro
surreale. Sembrava essere sociopatico almeno quanto me! “Allora?” domandò poco dopo dando un’occhiata in giro, probabilmente capì che se ero lì era perché non c’erano altri posti liberi. Non riuscivo proprio ad aprire bocca, cazzo! “Siediti e mangia! Altrimenti gira al largo!” che dire? Il massimo della cordialità!
Inspira ed espira, Ayris!
Strinsi ancora il vassoio e lo posai sul tavolo. Scostai la sedia e mi ci accomodai. Non riuscivo ad alzare lo sguardo. Mangiai nel più assoluto silenzio e col cuore che mi martellava nelle orecchie. Lo sentivo. Stavo per morire! Era possibile morire di panico? Penso che presto lo avrei scoperto.
“Sono felice che ti sia unita agli altri ospiti, piccola!” mi sentii dire alle spalle dal mio medico che mi si sedette accanto col suo vassoio.
“Già!” mandai giù l’ultimo pezzetto di carne che potevo mandare giù. Non avevo mangiato granché ma il mio
stomaco era comprensibilmente chiuso.
“Hai visto? Non è stato poi così difficile!”
“Posso tornare nella mia stanza ora?” gli chiesi subito con la speranza che mi lasciasse andare.
“Vai pure, Ayris… sei andata già bene oggi… un passo alla volta e tutto si sistemerà!” mi sorrise e per la prima volta vidi nei suoi occhi un barlume di speranza. Mi alzai immediatamente e corsi via, fuori da quel maledetto salone. Aprendo la porta per uscire sentii la gente bisbigliare alle mie spalle. “Quella è la ragazza che strilla di
notte!” fu l’unica allusione che mi arrivò chiara, ma avrei scommesso qualunque cosa che anche gli altri borbottii avevano più o meno lo stesso oggetto: la ragazza che strilla nel sonno.
Corsi in camera. Corsi a perdifiato fino a quando non arrivai al mio letto cadendoci sopra come un sacco di patate. Faccia nel cuscino. Continuando a ripetere ad alta voce: “Inspira ed espira, Ayris!... Inspira ed espira!!!”
Era stata l’esperienza più difficile che avessi dovuto affrontare da sei anni a quella parte. Ma almeno avevo dimostrato al dottor Ross, e forse più a me stessa, che volevo guarire e ci sarei riuscita con successo. Avrei dimostrato a tutti chi era Ayris, non sarei più stata la ragazza che strillava nel sonno.
Sarei stata Ayris, la ragazza che aveva superato il suo terribile trauma.
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BREATHING ON MY OWN
RomancePuò una profonda e inspiegabile amicizia diventare qualcosa di più ed essere la salvezza per due anime tormentate? Ash e Ayris vi faranno sognare.