Un giorno diverso

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Non riuscii a tornare a dormire, l'immagine dell'ombra era troppo recente per potersene liberare così facilmente. Non riuscivo a ricordarmi ciò che avevo sognato, ma presumo che la sagoma angosciante avesse predominato la mia esperienza onirica.
Dopo aver bevuto il mio corroborante caffè, presi un libro e il giornale e mi sedetti su una delle vecchie poltrone rosa. Cercai di leggere, riportando la mia attenzione al momento presente. L'ombra si faceva però continuamente strada tra una riga e l'altra, riportando il mio focus alla finestra, a cui davo regolarmente occhiate preoccupate. Lessi un capitolo o due di un saggio di pedagogia e passai in rassegna qualche notizia del giorno precedente sul giornale. Nulla che attirava particolarmente il mio interesse o, meglio, che riusciva a distrarmi da quell'immagine perturbante. Andai avanti in quel modo per qualche ora.
Verso le sette e trenta, posai il libro e il giornale sul tavolino e mi diressi in bagno per farmi una doccia. Forse l'acqua calda avrebbe sciolto le mie tensioni ruminanti.
Mi vestii, presi le chiavi dell'auto e uscii dalla cabina. Questa volta mi assicurai di chiudere per bene la porta, utilizzando anche il catenaccio di riserva e deposi le chiavi in un taschino ben protetto all'interno del mio giaccone.
La pioggia era cessata e al suo posto si faceva strada un timidissimo e pallido sole invernale. La foresta sembrava ora molto diversa. Sembrava un po' meno morta, leggermente ravvivata dalla luce solare. Ma l'inverno si esprimeva in tutta la seccante indole funerea. Senza contare quel fastidiosissimo terreno bagnato che rimane dopo un temporale. Nessuna traccia di ombre o altri fenomeni particolarmente sconvolgenti. Mi diressi verso il retro della cabina, dove avevo parcheggiato la macchina. Una piccola ed umile Chevrolet Spark grigia. Entrai, e inserii le chiavi accanto al volante. Prima di avviare il motore, estrassi il telefono dalla tasca del giaccone e passai in rassegna qualche social network. Il tutto mi diede un profondo senso di vuotezza. Osservai i post, gli aggiornamenti, le fotografie e le registrazioni con un tremendo disinteresse. Mi chiesi perché ancora lo facevo. Sentii la piattezza e la banalità di quelle costanti e inutili comunicazioni.
Riposi il telefono nel giaccone. Accesi la radio e partii.
Attraversai la foresta su un strada sterrata e lasciai la cabina nel bosco alle mie spalle. Era una proprietà dei miei genitori e si trovava in un luogo particolarmente remoto, incastrata tra gli imponenti monti che sovrastavano la piccola città. Era un luogo in cui mi ritiravo quando avevo bisogno di stare con me stesso, riflettere senza il costante disturbo dell'interazione umana, così sfiancante a volte. Ultimamente vivevo più in quella cabina che a casa mia.
Uscii dalla foresta e mi ritrovai in una zona ampia e collinare, la strada che ne lambiva i dolci confini e si perdeva verso Sud, sempre più in basso. Mentre guidavo, le memoria dell'ombra continuava a farsi spazio nella mia psiche. Di nuovo le domande che volevano risposte. Erano molte e complesse e mi sembra superfluo elencarle tutte ora. Semplicemente esse si riassumevano a due semplici ma significative locuzioni: Perché? e Chi?
Percorsi la strada, una curva e dopo l'altra, e, dopo una quarantina di minuti, raggiunsi un piccolo e idilliaco centro abitato. Tomasco: il mio villaggio d'origine, dove vivevano i miei genitori. Attraversai la piazza principale, che ancora si stava lentamente rinvigorendo dopo la notte di pioggia: edicolanti che spazzavano il fango dal marciapiede, panettieri che pulivano le vetrine, macellai che rastrellavano le foglie e le mettevano in un angolo.
Uscii dalla piazza e percorsi una stradicciola che si faceva largo tra le piccole casette a mattoni rossi. Mi ritrovai nella campagna, punteggiata di campi dove pascolavano capre, pecore e mucche. Nel bel mezzo di questa distesa di colore marrone, troneggiava una caratteristica casa ticinese.
Parcheggiai nel cortile che contornava la casetta. Spensi la macchina e aprii la portiera. Chiusi gli occhi e cercai di respirare l'aria di campagna invernale, l'odore del letame, della paglia. Il rumore dei campanacci delle mucche e il loro pacifico sbuffare. L'ombra ancora si faceva sentire, aggredendo i miei sporadici pensieri felici. Una voce calorosa, che mi ricordava tempi allegri, si librò nell'aria da una delle finestre. "Yel!"

Nella pioggiaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora