Come una bambola

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Sei entrato in camera mia. Me ne sono accorta. Sono sveglia. Rifugiata sotto le coperte del letto, ma sveglia. Tu non te ne rendi conto, ma ti sto osservando. Eccoti, stai scrutando ogni minimo angolo della mia camera, illuminata dalla debole luce proveniente dal corridoio alle tue spalle, cercando anche solo un oggetto fuori posto. Non troverai niente, ho appena riordinato tutto. Non potrai farmi ancora del male. Per te ogni scusa è valida per farmi sentire inferiore a te. E lo sono. Ho paura di te. Ho paura di vederti entrare in camera mia, infuriato e puzzolente di alchol, con in mano un bastone, per picchiarmi. Per questo, ogni volta che sento i tuoi passi rabbiosi pestare il pavimento del corridoio mi appresto a saltare in piedi, in modo da farmi trovare immobile, silenziosa, sottomessa, in attesa che tu mi scruti da capo a piedi in cerca di un minimo difetto e mi urli contro. Come una bambola. Ma, come una bambola, non sento neanche una delle parole che dici. Non faccio in tempo ad elaborarle che subito fuggono dall'altro orecchio. Il mio sguardo è sempre lo stesso: vuoto, vitreo, puntato in direzioni indefinite. Cerco di coprire la scintilla di rabbia che sta nascendo in fondo al nero delle mie pupille, mentre il tuo alito puzzolente e caldo mi arriva in faccia, insieme a imprecazioni di ogni genere. Non ci riesco. Tu la vedi, e mi tiri un ceffone. Cado a terra. È tutto quello che sai fare? Mi rialzo nella stessa posizione di prima. Non ho sentito niente.

Come una bambola.

"Mamma merita di meglio" mi sono detta dopo neanche due giorni che me lo avevi presentato. "Katie" mi avevi detto con voce sottile "Lascia che ti presenti Harold. È il mio compagno.". Lui ti stava dietro le spalle, e tu ti sei spostata di lato, abbassando la testa, per permettergli di stringermi la mano. Mi hai dato subito l'impressione che, se non ti fossi spostata tu, lui ti avrebbe afferrata per un braccio e allontanata per fargli spazio. Un armadio di due metri di altezza mi si è avvicinato e mi ha porto una mano la cui grandezza è paragonabile a quella di un gorilla. Ho allungato la mano opposta alla sua e l'ho stretta. "Piacere di conoscerti" ho sussurrato, consapevole che da quell'incontro non sarebbe nato niente di piacevole. Amavi tanto papà. Era un uomo buono. Non ti avrebbe mai fatto del male. Perchè hai pensato che Harold lo avrebbe potuto sostituire?

"Se qualcuno ti costringe a fare quello che vuole lui, è un tiranno. Anche se ti fa fare cose piacevoli.".

Papà lo ripeteva sempre. Non ci obbligava mai a fare niente. Harold sì. Non possiamo ribellarci a un mostro, perchè potrebbe ucciderci quando vuole. Ma tu, una volta, avevi la possibilità di salvarti. Il nostro caro amico...quello che lavora in Polizia...ti ha offerto la possibilità di esser protetta da quell'individuo. Non avresti corso rischi di nessun genere. Harold non avrebbe più sfiorato nè te, nè me. Aveva delle penali precedenti, simili episodi di violenza domestica gli avrebbero assicurato l'ergastolo. Io ero lì, accanto a te, mentre il poliziotto ti parlava della proposta. Ero abbastanza grande per comprendere la situazione. Ero immobile, sì, come una bambola. Ma ho cominciato a fissarti. Il mio sguardo implorava la tua pietà. Volevo supplicarti di accettare quella proposta, per il tuo bene. "No" hai risposto con voce flebile "...io lo amo...".

Io lo amo.

Io lo amo.

Io lo amo.

Quante ridicole idiote si sono rifugiate, grazie a questo pretesto del cazzo, dalle accuse di essere stupide, che facevano tremare le labbra di chi voleva urlargliele in faccia tanta era la forza con la quale spingevano per uscirne, ragionevoli, veritiere, per scagliarsi contro chi le meritava.

"L'AMORE ESISTE, SÌ, MA NON È QUESTO! AMARE QUALCUNO NON SIGNIFICA SOPPORTARE LE SUE PREPOTENZE! SE TI AMASSE DAVVERO, METTEREBBE IL TUO BENE PRIMA DEL SUO! SE NON SONO ENTRAMBI AD AMARSI L'UN L'ALTRO, NON È AMORE, È RASSEGNAZIONE E SOTTOMISSIONE!"

Avrei voluto scuoterla per le spalle, piangere, urlargli in faccia questi pensieri, ma non l'ho fatto. Le mani sono rimaste lungo i fianchi. Gli occhi asciutti, che fissavano il vuoto. Le labbra serrate. Presto riuscii a farle smettere di tremare. La mia mente si è svuotata dopo pochi secondi, e ogni pensiero che provava ad attraversarla scivolava via. Sono rimasta lì, immobile.

Come una bambola.

Una mano sporca e vigliacca mi tira i capelli. Un'altra mi dà un pizzico. Uno sputo mi arriva in faccia. Intorno, una decina di ragazzi che mi deridono. Quante volte mi sarò trovata in questa situazione? Ho perso il conto. Ora ho 16 anni. Mio padre è morto 3 anni fa per un cancro al fegato. Da allora, sembra che l'intera scuola abbia deciso di darmi contro. Ormai, frasi come "Ti odiano tutti", "Tuo padre è morto perchè gli faceva schifo averti come figlia", "Tua madre non fa niente per salvarti dal tuo patrigno perchè ti odia" eccetera sono diventate parte della mia routine. Le loro parole non mi scalfiscono fuori, ma dentro muoio ogni volta. Forse sono persino peggio delle botte di Harold. Ma non voglio dar loro la soddisfazione di vedermi soffrire. Sono solo degli idioti, mi dico sempre. Resto immobile. Ogni volta. Non un urlo o un pianto di disperazione da parte mia. Solo uno sguardo vacuo. Solo le braccia lungo i fianchi. Tutto sembra scivolarmi addosso.

Come una bambola.

Harold è appena tornato a casa. Ha un revolver. Il revolver che aveva comprato papà tempo fa per difesa personale e che aveva nascosto. Non so come l'abbia trovato, ma lo sta puntando contro mia madre. La sta accusando di averlo preso per il culo, di volerlo uccidere. Lei non ucciderebbe mai nessuno. Un lampo mi attraversa la mente. No, basta. Ho sempre fatto la parte della passiva, e ora che mia madre è in pericolo, non posso restare immobile a far finta che niente stia accadendo.

Come una bambola.

Non sono stupida. Harold non ha caricato il revolver. I proiettili ci sono, ma non sparerà. Afferro un vaso con un ficus dietro di me e lo lancio contro il bastardo. Lui barcolla, sorpreso. "Mamma, scappa! Chiama la polizia! Non pensare a me!" urlo. Lei è esitante. Mi vuole bene, non mi lascerebbe mai indietro. "Mamma! CORRI!" afferro mia madre per un braccio e la spingo fuori dal salone, poi chiudo la porta a chiave. Il mio sguardo freddo è rivolto contro il bastardo, che ora punta il revolver contro di me. Il suo pollice si muove verso il cane e lo spinge verso il basso, mentre il suo indice si posiziona sul grilletto. Si ferma così. "Avanti, spara." penso. Ma non lo fa. Resta immobile. In quell' istante, sento le sirene della Polizia avvicinarsi. Qualche vicino deve averle chiamate, se non è stata mamma. Sul mio viso appare un ghigno. Mi dirigo lentamente verso Harold, e comincio a studiare il suo sguardo. È spaventato e confuso. E lo sarà ancora di più, quando capirà cosa sto per fare. Ma allora sarà troppo tardi. Con un rapido gesto afferro con una mano il polso che regge il revolver, e l'altra la posiziono in modo che aderisca perfettamente alla superficie della sua. Lui sta impugnando il revolver, ma è come se lo stessi impugnando io. Le mie dita non sfiorano minimamente il metallo. La Polizia non troverà mie impronte sull'arma. Dirigo la canna verso la mia tempia, e spingo l'indice di Harold facendogli premere il grilletto. Solo adesso il bastardo capisce che tutta la colpa ricadrà su di lui, mentre io non sarò altro che la povera vittima indifesa che ha cercato di difendersi bloccandogli il polso.

Hai finito di far soffrire mia madre. Marcirai in una cella fino alla tua morte.

Gli ultimi rumori che sento sono i pugni di mia madre che sbattono contro la porta del salone, i poliziotti che corrono per il pianerottolo sfondando la porta d'ingresso, e le imprecazioni di Harold.

Sto arrivando, papà.

La pallottola mi attraversa il cranio, frantumandolo. Cado a terra. Immobile. Fredda. Come una bambola.

La prima bambola ad aver preso vita.

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