Incontro al parco

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Quando aprii la porta di casa, la richiusi alle spalle sbattendola.

Non potevo tollerare di passare un altro minuto dentro, a soffocare tra quattro pareti.

La luce del mattino rischiarava il marciapiede vuoto e, nel silenzio, rimbombava il suono dei miei passi frettolosi: avevo bisogno di fuggire, di staccare la spina.

Con Nathan era finita da cinque mesi, ma si sembrava ancora di morire nella mia forzata solitudine. Non riuscivo a stare più a contatto con gli altri: ogni cosa mi ricordava lui; quando meno me l'aspettavo, lacrime di rabbia e rimpianto mi inondavano il viso senza che ne avessi alcun controllo.

Odiavo esporre la mia fragilità, persino agli amici.

La mia famiglia aveva assistito, impotente, al disfacimento di tutti i miei sogni, quando Nathan aveva deciso di piantarmi.

Un biglietto. L'unica cosa che ho avuto da lui a spiegare perché avesse mandato a monte anni di relazione, appena a un passo da un matrimonio che ㄧ chiaramente ㄧ non aveva mai voluto.

"Non me la sento, Irma, scusami. Non riesco più a soffocare i miei sogni. È ora che io trovi me stesso e sento che per farlo devo troncare con tutto e tutti. Non ti chiedo di aspettarmi."

Ero rimasta a fissare quel foglio per ore; poi per giorni.

Avevo imparato ogni frase a memoria. Mi sono torturata per capire cosa avesse voluto dirmi veramente con quelle parole, desiderando di leggervi più di quello che dicevano.

Lo avevo aspettato sul serio, credendo la sua la classica paura prima del grande passo. Ma non era tornato, e io ero rimasta sola.

Nuove, maledette lacrime mi appannarono la vista, non vedevo più dove stessi mettendo i piedi.

Svoltando l'angolo, giunsi a un parco nella periferia della città, dove la gente portava a spasso i cani e faceva jogging, ma era ancora troppo presto perché vi fosse qualcuno in giro.

Il sole era pallido e basso all'orizzonte, l'aria fresca: trassi un profondo respiro e rabbrividii, godendo della momentanea quiete.

Costeggiai il muro perimetrale osservandone ogni piccola fenditura tra i mattoncini impilati: al di là di quello vi era il termine della città. Per un momento, pensai di essere diventata come quella linea di confine: il mio corpo era un fragile spessore che separava la società esterna dal mio vuoto interiore.

Distolsi lo sguardo, ignorando la metafora della mia vista accanto alla quale continuavo a mantenere un passo costante.

Poi da lontano scorsi la figura di un'anziana signora: era seduta curva su una panchina, le mani strette in grembo; fissava qualcosa davanti a sé. Sembrava molto fragile nella sua sagoma esile, fasciata da un enorme scialle che le copriva le spalle.

Non c'era nessun altro attorno.

Pian piano mi avvicinai: era così assorta che sembrava non respirare.

La osservai con più attenzione ㄧ forse addirittura morbosamente: era eterea nel volto chiaro e deformato dai segni del tempo. Per un momento mi venne l'assurdo pensiero che non si trattasse di una persona reale, ma che bastasse un battito di ciglia per vederla sparire nel nulla.

Quando fui abbastanza vicina da sfiorarle la gonna, sollevò di colpo lo sguardo, puntandomi addosso degli occhi color indaco che parevano leggermi nell'animo.

Ogni cosa nella posa, nello sguardo, nelle mani rugose e giunte, trasmetteva calore e sicurezza, ma anche un incredibile senso di malinconia e torpore.

Ci fissammo per alcuni, assurdi istanti, senza che riuscissi a dire nulla per la commozione.

Non fece domande. Con un gesto materno diede dei colpetti alla panchina, invitandomi a sedere.

Un giorno, per caso, una grande storia d'amoreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora