Fantasmi del buio

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La schiena era ricurva, i gomiti poggiati sulla balaustra, e gli occhi fissavano l'ignoto. Le genti, laggiù, non sapevano di essere osservate; li celebravano in silenzio, i loro salvatori, consapevoli com'erano di essergli debitori della loro stessa vita.

Una seconda figura si fece avanti, palesandosi dalla penombra, affiancandosi finalmente a lei. La guardò, il cuore se ne innamorò come fosse la prima volta, e le labbra liberarono un sorriso regalato al silenzio, al nulla. Se anche lei l'avesse visto, quel sorriso, mai ne avrebbe colto il significato, perché esso era complesso e ben celato. Solo le parole potevano sciogliere l'intreccio, ma il fine, non lieto, era sempre il solito. Lei non poteva amarlo, perché il suo cuore l'aveva già rubato un altro. E al suo, di cuore, anche se ferito – dilaniato – andava bene così. Forse stare in sua compagnia era sufficiente. Sì, forse, per essere felice, bastava bearsi del suo sguardo, ora proiettato in alto, dove un mare di stelle attraversava il cielo e lo colmava di una bellezza di cui solo la natura è capace.

«Come conoscevi questo posto?» La voce era calma e delicata, come se alzarne il tono fosse un affronto.

«L'ho scoperto per puro caso mentre mi aggiravo da queste parti» rispose l'altro. «Ma è solo quando ci sono tornato una sera che mi sono reso conto di quanto fosse unico e speciale.» Tese una mano nella sua direzione, senza osare oltre. «Lo vuoi vedere?» Invece che rispondere, Ladybug si limitò ad annuire con un sorriso. Chat Noir la colse alla sprovvista quando con una mano le coprì entrambi gli occhi, non permettendole di vedere più nulla. «Ti fidi di me?» sussurrò a fior di labbra – e la risposta era fin troppo ovvia. Chat Noir posò l'altra mano sulla spalla di Ladybug e iniziò a camminare, guidandola sia con la voce che con il corpo. Quando furono finalmente sul posto, il giovane si fermò, l'avvisò che era giunto il momento e ritirò la mano.

Lentamente, gli occhi di Ladybug si abituarono alla luce; studiò l'ambiente circostante, ma incontrò solo tetti e case. Poi Chat Noir la invitò a voltarsi e lei obbedì. Come una calamita, il suo sguardo venne immediatamente attratto dalla figura slanciata della torre Eiffel, che irradiava la città come un lume. Il cielo era terso, con le stelle che erano ancora più belle di prima. La luna era sgargiante e perfettamente visibile anche a occhio nudo. Le due fonti di luce, l'una artificiale e l'altra naturale, convivevano in armonia, senza spezzare l'incanto. La capitale offriva i soliti rumori, ma il modo in cui raggiungevano quel piccolo angolo di mondo non li rendeva né invadenti né fastidiosi. Ladybug sorrise ammaliata.

«Parigi oggi è incantevole, non trovi?»

Lo osservò con la coda dell'occhio, abbozzando un sorriso alla vista beata e serena del suo volto, come un bambino di fronte al gioco che ha sempre desiderato possedere. «Sì, lo puoi ben dire» convenne.

Chat Noir si sedette a gambe conserte sull'erba fresca del prato che cresceva sulla cima del terrazzo. «Vengo spesso quassù, da quando ho scoperto l'esistenza di questo posto. Ci vengo per pensare, o perché voglio rimanere solo.» Nel pronunciare le ultime parole, Ladybug udì la voce di Chat Noir incrinarsi in una nota di malinconia e avvertì il cuore contorcersi in una morsa. Decise che non poteva più attendere.

«Chaton?» Le piaceva quel soprannome. Era dolce. Affettuoso. Intimo, si poteva anche dire. Nessuno lo chiamava mai così, solo lei. Quando, nel sentirlo, il giovane si voltò, la voce di Ladybug si attenuò ancor di più, fino a quasi divenire un sussurro. «Conoscevi per caso qualcuno che è stato coinvolto nell'esplosione di oggi?» Qualcosa nello sguardo del giovane si ruppe. Ladybug si sedette di fianco a lui. Delicatamente, senza chiedere il permesso, poggiò una mano sulla sua spalla e liberò solo e soltanto per lui il sorriso più sincero e amorevole di tutti. «Non sei costretto a parlarne, ma se vuoi farlo... io sono qui.»

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