Markus

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«Ho la forte impressione di conoscerti.» Osservo la mia non troppo nuova conoscenza, un uomo giovane, basso ma nonostante questo prestante, con i capelli scuri e gli occhi chiarissimi. Ha dei denti molto lunghi, e il mento squadrato. E per di più, ha un tono di voce talmente acuto da risultare adorabile, come quello di un bambino.
In realtà non ho alcuna impressione: sono più che sicura che tra me e lui esista un legame, qualcosa di talmente solido che addirittura sembra che egli sia un pezzo di me esteriorizzato.
«Effettivamente dovresti conoscermi. Dato che mi hai messo al mondo.»
Lo guardo dritto negli occhi, cercando di sforzare la mia mente per decriptare il messaggio. Sbatte le palpebre, facendomi notare quanto siano lunghe le sue ciglia, al contrario dei capelli che sono tenuti pressoché a zero, e quanto le sue pupille siano scure. Sembrano contenere il Nulla, che come si sa, è quanto di più vicino all'Assoluto ci possa essere.
Markus.
«Tua madre è morta, Markus» pronuncio con una voce che non arriva dalla mia gola, ma molto più dall'aria che ci circonda.
«Anche mio padre. E sei stata tu.» I suoi occhi non sono lucidi: assomigliano piuttosto alle nubi che scatenano la pioggia, che al cielo sgocciolante. Come sempre, sento un doloroso nodo alla gola.
«Non sono stata io. È la Storia. La tua storia, e quella del Mondo»
«Sei stata tu a metterla nero su bianco, e farmi apparire qui.»
Mi blocco. Il biancore dell'atmosfera attorno a noi mi colpisce.
«Qui non è il Mondo...»
Realizzando quanto ho appena detto, mi guardo in giro. Tutto è sfumato, come se non avessi gli occhiali, e la luce mi acceca, cercando di spingermi a chiudere le palpebre; ma so benissimo che quando mi abbandonerò a questa tentazione, tutto sarà finito.
«Dimmi che mi perdoni, Markus»
«Tu mi perdoneresti? Io sono te. E quindi posso dire che non lo faresti. Allora per quale motivo dovrei farlo? Nessuno ti ha mai chiesto di scrivere la mia storia. Se nessuno l'aveva mai fatto è perché non ce n'era alcun bisogno. Non volevo essere ricordato. Non volevo più ricordare la mia vita»
«E allora che scopo ha avuto?»

Quale? Quale?

La vibrazione del cellulare mi desta da un sonno che come sempre è stato troppo corto. Un senso di fresco alla base degli occhi conferma che ho versato qualche lacrima; e sento in gola il sapore di un grido. Markus...
Per la paura di essere ricatapultata in quella dimensione troppo candida, mi alzo di scatto e mi preparo con sollecitudine; non mi aspetta nulla di particolarmente eclatante, ma spero che togliendomi di dosso il tepore delle lenzuola e del pigiama blu, anche il calore delle emozioni che il tono di Markus mi ha fatto percepire svanisca.
Così non è.
E anzi, quella sensazione rimane con me tutto il giorno, spostandosi all'interno di me dal petto alla fronte alle spalle, fermandosi verso sera nelle mie mani segnate dal gelo della stagione e dalle mie numerose sviste e distrazioni.
Un nuovo capitolo della mia storia; è tutto il giorno che aspettavo di scriverlo! Il protagonista sta per capire sé stesso e i suoi sentimenti, è certamente questo uno dei passaggi che dovrebbero essere più belli di tutto il libro e rientra nel genere di scene che mi diverto così tanto a raccontare.
Appena guardo il bianco del mio foglio, però, le iridi e le pupille di Markus tornano a fissarmi, fulminandomi a tal punto che non riesco a mantenere aperti i miei occhi. E quando li riapro, il foglio è più candido di prima. Ferma con la punta della penna a pochi millimetri dalla superficie, decido di cambiare tattica, e accendo il PC. Dopo alcuni minuti, ecco i pixel monocromi di un nuovo file che non attende altro che poter pesare un po'.
Distolgo la mia attenzione dallo schermo giusto un momento, in cerca delle giuste parole per iniziare e della concentrazione che - forse - ho un po' perso; e una volta racimolate, appoggio i polpastrelli sui tasti ruvidi e scuri della tastiera ergonomica che mi ero regalata con tanti buoni propositi, e che lentamente si sta riempiendo di polvere.
Lontano da casa. Se solo ne avessi mai avuta una, sicuramente potrei affermare di esserlo. Eppure pare che la mia casa, in questo mondo, possa averla soltanto materializzata nel mio corpo.
Un corpo che inizia peraltro a darmi chiari segnali: non sono più giovane come un tempo, e sono anche stanco di essere solo. Ne ho abbastanza di ascoltare la voce della mia mente, la sera, sogno tanto di potere ascoltare la voce di una persona cara quando sono stanco, e di sentire le sue carezze sulla fronte, e forse di fargliene a mia volta. Vorrei avere qualcosa di concreto a cui dedicare il mio tempo.
Tempo che non equivale al denaro: è il denaro ad equivalere, e non in modo giusto o sempre sensato, a quanto occupa entro la durata di una vita. Tempo che non è quantificabile, perché non scorre affatto con la stessa velocità in ogni momento. Misurarlo è un po' come misurare il peso di un solo braccio - non ha alcun senso e non sarà mai una quantità veritiera. Un secondo non può valere lo stesso del secondo che lo precede, né di quello che per caso che lo seguirà. Quando finisce? Quando inizia? Chi lo sta vivendo? Cosa significa? Cosa comporterà?
Un secondo raramente ha un significato. Quello che conta davvero, spesso dura molto meno di un secondo. O un po' di più.
Eppure abbiamo molto più sulle labbra la parola "secondo" che tante altre che avrebbero un diritto ampiamente maggiore di esserci. Che spesso nemmeno esistono.
In un attimo esplode una bomba, in qualche momento crolla una casa, ed è inquantificabile il tempo in cui le persone là intrappolate spireranno...
Markus.
Una mano si appoggia alla mia spalla.
«Sono le undici, sarà meglio che tu vada a dormire.»
«Grazie. Buonanotte, papà.»
Prima di tornare a giacere sul letto, però, cerco di portarmi avanti ancora un poco...
Come lei. Lei mi sembra una persona perfetta alla quale augurare la buonanotte ogni volta che il sole cala, e alla quale accarezzare i capelli per scacciare i cattivi pensieri. Lei potrebbe dare un senso a quello che sono, alla mia vita. E se dovessi avere un figlio da lei, ecco che finalmente la mia esistenza avrà dato al mondo che l'ha ospitata qualcosa di concreto.
Non tutti hanno la fortuna di desiderare un figlio. Tantomeno di poterlo avere. Ma lui sì, la mia ultima creatura l'avrà.
Spengo il PC e, curandomi di non rimanere al buio nemmeno un attimo, scivolo tra le lenzuola: solo una volta là provo a chiudere gli occhi, e la quiete che sembra esserci dietro il velo delle mie palpebre mi permette di scivolare presto in un torpore che assomiglia a un sonno non totale. E in questa situazione, riecco l'acuta voce dell'Orfano.
«Quanto tempo che perdi a scrivere.»
«Dovrò pur usarlo, in qualche modo»
«Ogni momento passato a scrivere è un momento passato fuori dalla tua vita, quindi un inconsapevole passo verso la fine. È come dormire, ma ancora peggio: non ti aiuta ad affrontare meglio il futuro»
«Come no? Quando non scrivo mi sento male.»
«E adesso come ti senti?»
«Mi sento... Felice» decido, dopo qualche attimo di riflessione. «La mia vita, al contrario della tua, un senso ce l'ha. Piccolo e insignificante, ma piccola e insignificante sono io stessa, e quindi non miro assolutamente a più in alto.»
«E quale sarebbe?»
«La morte, che ti ha vinto, si può battere solo con il ricordo. O con la gioia. E personalmente le trovo entrambe nella speranza che un giorno, oggi, domani, o tra mille anni, qualcuno legga tutte le parole che ho messo per iscritto. Non è necessario che si sappia chi è stato a scriverlo: tutta io stessa sono in queste parole; la mia anima è fatta di parole.»
«Questo comporta che un giorno rimarrai senza»
«Quel giorno morirò.» Lo guardo; la sua pelle è diventata chiara e lucente, come se fosse fatta di seta. «Ogni cosa scritta è comunque una traccia di ciò che sono stata, sarà un modo di tornare ad essere giovane un giorno, e sarà un modo di farmi conoscere da chi verrà. Forse. Sicuramente però è un modo molto più fruttuoso di "spendere" la mia anima che non di lasciarla sciogliere nel tempo, come tanti si limitano a fare.» Il nostro spirito, giungo a concludere, è fatto di due cose: parole e tempo. Parole, certamente, che non sono quelle superficiali o quelle automatiche, o ancora quelle funzionali alla vita materiale: quando dico parole intendo quelle importanti, che pesano sulla nostra situazione e su quella di chi ci circonda - quelle che possono rendere un testo degno di essere letto, e non un semplice cumulo di chiacchiere scritte.
Il resto, concludo tra me e me, è circostanza, o sono forze interne a questi due elementi. I sentimenti riguardano la maniera in cui sentiamo di dovere spendere l'una o l'altra cosa, dato che in qualche modo, prima o poi, una delle due terminerà, e con essa la nostra esistenza. «Sicuramente nessuno può conoscermi meglio di me stessa. Tantomeno potrà raccontare chi sono al futuro. E non possiamo che vivere per il futuro - è l'unica cosa che la nostra esistenza possa determinare, almeno in una piccola parte. E solo in linea teorica.» Pronuncio queste parole lentamente, senza alzare lo sguardo da terra.
«Amando non si cambia il presente? Non ho mai fatto felice nessuno con il mio amore? In quegli attimi... In cui ho stretto una mano tremante. In cui ho fatto nascere un sorriso. In cui ho alleviato almeno un po' di dolore...» La sua voce si affievolisce, e quasi temo che anche lui possa svanire.
«Che senso avrebbe avuto, ancora una volta, se non l'avessi raccontato, Markus?»
«Ne ha avuto indipendentemente dalla tua storia: era letizia, quella che ha dispiegato le rughe sulla sua fronte»
Rimango in silenzio.
Se non avessi raccontato quella storia, non sarebbe esistita quella gioia, né la sofferenza che essa ha sostituito. Ma non sarebbe esistito neanche Markus, né il suo amore, né questo assurdo luogo.
E soprattutto, non esiste quel "se"; io l'ho scritta, e non è possibile escludere neanche in linea teorica che nel mio percorso di vita io potessi non scriverla. Siccome sono nata, l'ho scritta. Potevo non nascere: è assolutamente vero. Ma sono nata, ed ecco cosa ho portato, cosa quella bimba significava già dai primi gesti nella culla, dai primi sguardi sul mondo, da tutto ciò che le è stato dato.
Questo. Non molto altro.
In fondo sono solo una bambina. Non è un granché in generale; ma per me è tutto, letteralmente tutto.
«Buonanotte, Markus.»
La luce si spegne, i miei occhi interiori si serrano. Chissà se lo rivedrò mai più.

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