IL CANE DEL PARCO

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Era un giorno piovoso come gli altri, le macchine sfrecciavano sul freddo cemento delle strade, in quel momento allagate, la gente correva per mettersi disperatamente al riparo dal temporale, i tuoni rombavano nel cielo, quasi fossero esplosioni. Il parco però era di una bellezza particolare, l'acqua che cadeva formando grandi pozzanghere, lo stagno che straripava e gli alberi gocciolanti e lucidi, quasi splendenti alla fioca luce dei vecchi lampioni del parco.

 In quel luogo, una bambina di sette,forse otto, anni camminava per il lungo sentiero senza una metà, come se stesse cercando qualcosa che non avrebbe mai trovato. In mano aveva un vecchio ombrello rosso acceso, così grande che quasi la piccola fanciulla non riusciva a sollevarlo. Possedeva solamente dei grandi e luridi stivali di cuoio, inzuppati di fango, un lungo giubbotto grigio di cotone abbottonato, un cappellino e dei guanti invernali di lana rosa, e uno sconforto tale che manco il più grande dei fardelli avrebbe potuto sostituirlo. Le lacrime solcavano il suo pallido viso come grandi cristalli di quarzo.

 Ora, la domanda era, perché era là? Difficile dirlo, forse qualcosa era andato storto, forse i suoi genitori avevano litigato di nuovo, forse il rammarico di una perdita o della vita di una bambina che non aveva veramente mai conosciuto la felicità, e quando l'avvertiva, la scacciava via, quasi avesse il timore di quell'emozione tanto ricercata dagli uomini, ma per lei mai conosciuta. Camminando,arrivò in un piccolo spiazzo con alcune altalene e dei piccoli scivoli per bambini, che però erano arrugginiti e, in quel momento, sporchi di fanghiglia e bagnati. Mary non c'era mai salita, perché sua madre, quella donna assillante e iperprotettiva che si allarmava per ogni cosa, non voleva. -Non salire là- diceva a Mary – è pericoloso!- per poi recitare noiose omelie per quello che non avrebbe dovuto fare perché "ti potevi fare male". Più in là c'era una fontanella, anch'essa straripante e fangosa. Vicino a quest'ultima una panchina di legno di faggio mangiato dal tempo. Mary, vedendola, si avvicinò, e dal nulla una fortissima folata di vento le strappò di mano l'ombrello e la fece cadere a terra. La bambina, ormai bombardata dai proiettili d'acqua che cadevano dal cielo, guardò il suo ombrello volare via e finire in chissà quale albero. Ma non le importava. Si rialzò, un po' dolorante al ginocchio e stordita per la caduta, e andò a sedersi sulla panchina. Quanto restò là a piangere? Cinque, forse dieci minuti, ma qualunque fosse quell'arco di tempo, a Mary sembrarono cento anni. Pensava a cosa sarebbe successo dopo, e piangeva, pensava al perché fosse scappata, e piangeva. Avrebbe detto che furono più le lacrime che versò lei quel giorno che tutte le gocce cadute a terra.

 Poi sentì i passi. Udì il rumore di foglie e rami calpestati, e qualcosa che si avvicinava lentamente. Mary, pensando che fosse sua madre che l'aveva rintracciata ed era venuta a prenderla, si girò e grido con tutto lo sconforto che aveva dentro di sé -lasciami!-. Ma là di fronte non si stendeva l'imponente figura della madre, bensì quella di un grande e grosso alano di manto nero, simile a quello delle nuvole temporalesche. Altri tuoni rombarono, facendo sobbalzare Mary. Ma il cane rimase là, impalato, a fissarla, come se fosse la padrona ritrovata dopo tanti anni. La bambina squadrò il cane: aveva sul corpo chiazze di pelliccia rovinata, non sembrava ben curato, probabilmente un cane randagio, ma tutto sommato, pensò Mary, era un bel cane. I suoi grandi occhi d'iride verde la scrutavano minuziosamente. Mary, ancora scossa per il tuono, si avvicinò con reticenza al cane. Arrivò vicino al suo muso, mentre l'alano silenzioso continuò ad analizzarla. Chi era quel cane? Che voleva? Cosa poteva fare per lei? Tutte queste domande vorticavano nella testa di Mary, come un uragano di parole, pensieri, speranze. All'improvviso l'animale scattò all'indietro, come se avesse voluto prendere qualcosa. Mary, ancora con diffidenza, lo seguì. Il quadrupede aveva tra le fauci un piccolo ramo di betulla caduto da un maestoso albero qualunque del parco.

 Negli anni successivi, quando Mary ripensò all'accaduto, non ricordò bene cosa era successo dopo, le vennero a mente solo pochi particolari. Lei afferrò il ramo con le sue fredde mani, lo lanciò e, come per magia, il cane era corso in men che non si dica a riprenderlo. Poi seguì un intruglio confuso di immagini, pensieri ed emozioni nella testa di Mary.Erano rimasti là, nel parco, a rincorrersi e a giocare? Lei non seppe mai dirlo con certezza. Una cosa però era sicura: Mary quel giorno trovò un amico, un amico caro, un amico che per la prima volta la aiutò e le stampò il sorriso sulle labbra quando ne ebbe bisogno. Cosa successe dopo? Incredibilmente, quasi fosse un miracolo, ritrovò la strada per tornare a casa e si ricongiunse con la madre.

 Tornò spesso a fare visita a quel cane, ma non ci andò mai con la madre, col tempo imparò a uscire di nascosto, perché quel segreto doveva rimanere solo tra loro due, tra Mary e il suo nuovo amico. A proposito di questo, non parlò a nessuno di lui, mai, non chiamo mai un canile, perché,come si può dedurre dalla frase sopracitata, quell'amicizia era legame indissolubile, un filo esistente solo tra loro due, di cui nessuno conosceva l'esistenza e di cui nessuno avrebbe tagliato il nodo. Col passare degli anni, Mary crebbe, divenne una ragazza, ma le sue emozioni da bambina che ebbe quel giorno rimasero sempre sigillate là. Ogni settimana andava al parco, e ogni settimana lo trovava lì, ad aspettarla desideroso della sua presenza. Portava sempre un po' di cibo, i resti del pranzo, e qualche volta gli pettinava pure il pelo. Ma niente di materiale dura in eterno, tutto finisce.La vecchiaia avanzava, avanzava sempre di più, come un giaguaro pronto a colpire. E, un giorno di agosto, quando Mary, ormai maggiorenne, andò al parco, non trovò il caro animale tanto atteso. Pianse, ma al contempo sorrise, perché quel cane le aveva regalato la forza di andare avanti, di essere felice. Un amico che, seppur scomparso, non se ne sarebbe mai veramente andato da quel parco.

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