Capitolo X

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Guardavo le persone scorrere ai lati dell’auto, e l’orizzonte – una strada asfaltata e molto frequentata – stagliarsi a perdita d’occhio davanti a noi, e i miei pensieri corsero immediatamente alla corsa nel taxi di circa un mese e mezzo prima, a New York. Pensai a quanto fosse strano il caso, al fatto che mi sarei potuta rassegnare e prendere il prossimo taxi – e non avrei mai incontrato Neymar.
Allora mi ricordai di maktub, parola araba che potrebbe umanamente tradursi come “come è detto”. Per i popoli del Medio Oriente, indica il destino già segnato, e la certezza che tutto accade perché è stato deciso da chi domina tutto: Dio.
Probabilmente avevo sussurrato il vocabolo arabo, perché Neymar mi chiese  “Ma- cosa?”.
Approfittai per chiedergli dove fossimo diretti, ma lui non mollava: guardava avanti, e diceva che dopo pochi minuti saremmo giunti a destinazione.
Mantenne la promessa: stavamo entrando in un edificio che avrei potuto dire una palestra, con l’odore di cloro delle piscine che si effondeva nell’ambiente. L’odore di cloro mi mandava in preda all’ansia da quando da piccola praticavo nuoto agonistico.
Seguivo il ragazzo che camminava a passo svelto, ma cautamente, dinnanzi a me – e decisi, dunque, di emularlo nella velocità e nel silenzio dei passi.
Infilò delle chiavi nella toppa di una porta bianca, e spinse, lasciandomi ammirare una ampia piscina, strategicamente posta al centro della grande stanza proprio come se volesse dominarla. Una grande vetrata coperta da grigie con la stampa “CBF” illuminava leggermente la stanza; ma era giorno, e c’era abbastanza luce perché non cadessi in acqua.
“E questo cos’è?”
Rispose che era la piscina di allenamento della Nazionale Brasiliana. Non potei esimermi dal ridere, ma Neymar continuava imperterrito.
“E’ così”, giurò “non scherzo.”
Gli chiesi come mai mi avesse portato lì. Disse che aveva avuto un’idea considerevole, che ero impaziente di conoscere – e che allo stesso tempo mi trasmetteva un leggero senso di inquietudine.
“Hai portato tutto nelle valigie?” mi chiese, allora.
Ero spiazzata da quella domanda. Gli chiesi cosa volesse intendere: “Il vestiario”, precisò.
Affermai: sì, avevo portato proprio tutto. E gli dissi che no, mi dispiace, non volevo prendere l’ennesimo volo per ritornare a New York, a meno che non fosse strettamente necessario.
“Allora, fammi un favore: prenditi un costume da bagno e ritorna qui. Okay?”
“Okay.”
Forse cominciavo a capire…

Ad ogni modo, la camminata furtiva per la palestra non aveva funzionato appieno – anzi, per niente. Muovevo passi sinuosi, come un soldato in mimetica in una foresta pluviale, ma a) non ero un soldato, b) non ero in mimetica – indossavo jeans e maglietta, c) non ero in una foresta pluviale, bensì in una palestra dove non posso confondermi, pur volendo, con i muri e, punto più importante, d) avevo anche un costume da bagno nella mano.  
Rinunciai alla pretesa del mimetismo e camminai normalmente per gli ultimi metri che mi separavano dalla stanza della piscina.
Al suo interno, Neymar era seduto su una panchetta e controllava il cellulare.
“Ah, eccoti!” disse con un sorriso. “Dai, vai a cambiarti!”
Raggiunsi lo spogliatoio e ne uscii poco dopo, intenta ad allacciarmi il top. La verità è che sono molto negata con i nodi ai costumi, ma al momento non volevo sembrare scema e non mi arresi davanti a due lembi di lycra.
“Bel costume.” Commentò Neymar.
“Anche io non sono male, però grazie mille.”
“Beh!” rise “Era un modo carino per apprezzarti!”
“In tal caso, grazie!”
Mettemmo i piedi nell’acqua fresca, ed ebbi finalmente occasione per ammirare il suo costume: uno slip nero e aderente, dal quale partiva un torso scolpito ad arte – e forse, anche un po’ troppo tatuato. Nonostante tutto, era innegabile che Neymar mi piacesse, e comunque non valeva più la pena negarlo.
Quando l’acqua arrivò a lambirmi i fianchi, mi calai. La piscina era fresca, dopo il solito shock dei primi trenta secondi, addirittura non si percepiva la differenza di temperatura con l’aria. Riuscivo a tenermi in piedi perché la profondità era minore rispetto alla mia altezza.
Sedetti sulla panca all’interno della vasca.
“Cos’hanno detto i tuoi, quando hai chiesto di trasferirti?”
“Loro sono emozionati perché mi sono fidanzata. Anzi, non prendiamoci in giro: mio padre è a tanto così da terra solo perché tu sei tu.”
Rise di gusto.
“E tutti sanno chi sei tu. Comunque,” continuai “no, l’hanno presa normalmente – forse mio padre con un po’ di euforia in più, ma abbastanza normalmente. Hanno accettato senza particolare resistenza.”
Non era la verità: i miei avevano più volte cercato di farmi ragionare, e dopo un po’ hanno finalmente deliberato a mio favore. Avevano opposto resistenza, e pensavano – pensano tuttora che io sia troppo giovane per cose del genere. Come dargli torto? Ma io volevo davvero bene al ragazzo.
“E sarebbero felici di incontrarti, un giorno. Sempre che facciamo sul serio.” Dissi, fissando l’acqua trasparente che mi bagnava fino alle spalle.
Neymar mi guardò negli occhi con una certa intensità.
“Io non ho dubbi a riguardo. Sono serissimo. Guardami!”
“In verità non hai la faccia della serietà, perdonami.”
Ridemmo, e io poggiai il capo sulla sua spalla.
“Voglio solo vivere la mia vita. Fare gli errori che voglio, sbagliare da sola e accorgermi da sola dei miei errori, ammetterli, e poi non commetterli più. Voglio prendermi le mie responsabilità, e devo farlo. A me non importa se la gente penserà che siamo troppo giovani, se mi giudicheranno male , se mi guarderanno e diranno le solite frasi stereotipate, del tipo ‘E’ molto cambiata’, oppure ‘Ma tu ti ricordi di quella ragazza? Era così mansueta’: voglio dire, fare cose del genere non vuol dire non essere mansueti. Che male stiamo facendo alla comunità? Sto per caso offendendo il nome del Signore? A me sembra di no. E comunque, la vita è fatta di rischi, non si può pretendere di vivere sotto una campana di vetro. Poi si vedrà se sto solo dicendo sciocchezze – e, ad ogni modo, sarà una cosa che verrà dopo. Adesso voglio vivermi la mia vita.”
Guardai nei suoi occhi, fino in profondità, e mi resi conto che, in realtà, non avevo mai capito bene di che colore fossero. Ma continuai a guardarli, senza paura di consumarli e di scoprirne i segreti meglio celati.
“Il mio adesso sei tu.”
Mi baciò, e mi prese per i fianchi, facendomi sedere sulle sue gambe. Continuò a baciarmi fino a scendere sul collo; mano a mano, baciava ogni centimetro della mia pelle fino ad arrivare al petto. Spinsi istintivamente la testa all’indietro per la strana sensazione, ma lui non si fermava: mi teneva ancora per i fianchi e continuava imperterrito a baciarmi. Si staccò dal bacino solo per arrivare lentamente al reggiseno, che slacciò con un abile gesto delle mani.
Adesso il contatto si era accentuato: io ero rimasta in slip del costume e lui altrettanto, e i miei seni  toccarono il suo petto, e la pelle d’oca cominciava a farsi sentire – nonostante la temperatura piacevole dell’acqua.
Neymar si alzò, si cinse i fianchi delle mie gambe e fece poggiare la mia schiena sul muretto lucido della vasca.
Sentivo l’eccitazione crescere in modo smisurato, e la sua non era da meno: stava slacciandomi i cordini laterali degli slip quando sentii uno strano rumore provenire da fuori. Non ci feci caso, perché nemmeno lui stesso ci badò, e continuava a sfiorarmi le gambe con le mani. Con le mie, invece, e con il mio torso nudo, potevo sentire gli addominali scolpiti nel suo fisico magrolino ed irresistibile. Passavo le dita tra gli incavi ben rimarcati e pieni di tatuaggi, facendogli sussurrare percettibilmente il mio nome.
Gli slip quasi slacciati, stava per togliersi i suoi quando l’inconfondibile rumore di una chiave nella toppa ci riportò alla realtà. Non potevo vedere, perché rivolta verso le vetrate, ma sentii la porta aprirsi e un gruppetto di individui entrare nella sala. Sentivo gli sguardi addosso come potenti laser; mi girai, e, coprendomi il petto con le mani, vidi un gruppetto di giapponesi ridacchiare davanti alle nostre facce pallide e a quelle dell’allenatore Felipe Scolari e la presidentessa Dilma Rousseff.
Uscirono tutti molto velocemente, con un seguito di asiatici felici e divertiti. Neymar mi guardò di sfuggita con gli occhi fuori dalle orbite: mi aiutò ad indossare la biancheria e uscimmo insieme senza scambiarci una parola.
“Neymar!” lo chiamò Scolari “Ma sei impazzito? Accedere alla piscina privata della Nazionale? E non per allenarti?”
Lui lo guardava un po’ imbarazzato.
“La signorina”, disse, asserendo a me “è una ragazza tanto bella, ma non è un luogo adatto per fare questo genere di cose.”
Entrambi abbassammo lo sguardo.
“E adesso vai, prima che mi passi per la mente la brillante idea di espellerti.”
Fuggimmo in auto prima che ce lo ripetesse ancora; Neymar, silente, guidava verso casa.
Si limitava a guardare la strada, adesso in un modo diverso da come lo aveva fatto prima.
“Hey, Junior?” poggiai la mano sul suo bicipite.
“Sì?”
“Abbiamo fatto una gran figura di merda.”
Ridemmo insieme.

Brasileiros (Neymar Jr Fanfiction)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora