L'afa di giugno è un mix di facce sudate, di ascelle puzzolenti e di quel velo ondeggiante al limitare della strada che dà tanto la sensazione del vecchio West; allo stesso tempo, il clima di fine primavera ha quella strana e nostalgica accozzaglia di colori ardenti di un urlo alla gloria che è paragonabile solo alle foglie degli alberi d'autunno. Spesso ci si dimentica che le stagioni di mezzo sono quel periodo di transizione che nella vita delle persone si concentrano in quella manciata di anni che dai 18 porta ai 50. Stranamente il tempo è volato e non ci si accorge né del come né del quando. Gli eventi che si sono susseguiti nel mentre possano risultare banale a quel punto e allora il percorso all'indietro è inevitabile, il Benjamin Button dei ricordi.
Quello che cerchi di affrontare non è la vita, non sono le parole pronunciate, anche se importanti, bensì le aspettative e tutte quelle scelte, fatte o non fatte. Come sei arrivato dove sei? Che cosa ti ha portato a quella che è ora la tua vita? E quel primo, avvolgente, passionale amore? La gioventù.. che mi dici della gioventù? Cos'è stato importante in quel percorso che oggi ti vede stanco, stressato, con un lavoro che non paga mai abbastanza e per cui hai perso la passione? Cos'è quel reggiseno sfatto che sfila dal maglione sgualcito dopo una giornata in strada?
Non mi ero mai fermata a considerare la mia vita, non avevo mai neanche pensato che un giorno sarei stata tra quelle persone che hanno addirittura bisogno di ricordarsela la loro vita. Non ricordavo più il volto del mio cane quando ero ragazza, quando tornando a casa, durante il periodo del mio primo lavoro, qualsiasi oggetto, animale, pianta o persone mi fosse fin troppo difficile da sopportare; lui però, con quella faccia tonda e pelosa e la coda incredibilmente allegra, faceva quella grande eccezione che rimetteva in ordine tutti quei tasselli che alla sera, dopo tutte quelle ore fuori casa, avevano smesso di smussarsi gli angoli per duellare con più ferocia e orgoglio dei Moschettieri. Non avevo più vent'anni, quella piccola palla pelosa non c'era più da anni e il mio appartamento era vuoto. Avevo ricevuto le mie soddisfazioni, nella vita, mi ero innamorata un paio di volte e a ripensarci bene mi sentivo perfettamente in sintonia con una frase di Hermann Hesse letta qualche anno prima, tratta da Knulp: «Ecco, vedi, io mi sono innamorato due volte nella vita, ma sul serio, e tutt'e due le volte ero sicuro che sarebbe stato per sempre e fino alla morte, e tutt'e due le volte è finita e non sono morto». Ricordo che la prima volta che la lessi stavo vivendo da qualche mese il mio primo, turbolento amore. Avevo riso di quella frase, di quell'assurda e arbitraria verità che quello scrittore che tanto mi piaceva mi stava mettendo davanti; una verità che non avevo avuto le capacità di ascoltare e di considerare quando ne avevo avuto il tempo. In un certo senso, nella vita mi ero comportata spesso così. Avevo considerato il vascello sul quale le mie gambe mormoravano un avanti continuo e inesorabile, come il risultato di una forza a volte incapace di raccordarsi al mio desiderio di imbalsamarmi gli arti al terreno.
L'allegria, la spensieratezza, il piacevole relazionarsi con gli altri. Nessuna di queste è mai stata una caratteristica a mio favore. Niente che potesse rispecchiare anche solo lontanamente la mia personalità. Mi sono sempre sentita come quegli stranieri che cercano di parlare in italiano e magicamente trasformano questa lingua, neanche troppo complicata, in quel miscuglio così mal assortito, il più delle volte, di pronunce e parole a metà con la loro lingua madre. Da ragazza era una sensazione che non riuscivo a descrivere e che come tutti i miei coetanei mi faceva sentire costantemente incazzata con il mondo. Quel senso patinato di insofferenza che mi imbrogliava e mi chiedeva come mai non riuscissi a rendermi migliore, come mai fossimo tutti fermi a quel punto che spesso si definisce morto, ma che a diciotto anni mi sembrava impronunciabile, come quelle poche storie dell'orrore che non riuscivo ad ascoltare più di una volta. Avevo desiderato nascondere il mio cuore e negli anni ce l'avevo fatta, l'avevo seppellito talmente bene che mi era difficile disseppellirlo.. addirittura trovarlo. Non volevo vivere con un cuore che non mi aveva dedicato altro che la sua costante e insopportabile sofferenza. Era diventato ingombrante. Un peso che dietro il petto pulsava una pioggia di sassi e che non smetteva di riempirmi di un peso che non ero in grado di sostenere. Mi sentivo vuota, mi sentivo un burattino. Forse con il tempo avevo perso quella vena di magica ispirazione che quando ero bambina mi faceva vedere, nascosta su una foglia, quella fata simpatica che brillava al sole e cantava sotto la rugiada. C'erano tante cose che non volevo ammettere, tanti ricordi che non volevo ricordare e tanti desideri che non avevo avuto il tempo o la volontà... o il coraggio di esprimere.
Cinquant'anni, una stanza vuota, sebbene apparentemente arredata e arricchita di quella libreria che avevo impiegato anni a riempire, con una facilità che nel resto della mia vita non avevo mai avuto. Un foglio, non più bianco, e una penna stilo che mio padre mi aveva regalato da giovane, quando ancora lo guardavo negli occhi con quell'odio tenero che solo un figlio riesce a provare per il proprio genitore, mentre negli anni della formazione (e della convivenza) duella implacabile per ottenere le piccole libertà della giovinezza.

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Impasse
RandomLe descrizioni sono lo spogliarsi continuo di una fascia d'anima. Leggimi, se hai bisogno di scoprire qualcosa; se vuoi sapere se il racconto o meno ti piacerà. Leggimi.