Il Canto del Drago

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“Fin dalla notte dei tempi, nei ricordi di tutti i popoli c’è la leggenda del Guardiano. Né uomo, né donna, almeno così si dice, custodisce l’albero del bene e del male. Ne è il Guardiano eletto dal dio drago, colui che sorveglia la manifestazione e attende l’ultimo giorno per poter essere liberato.”

Un sorriso appena accennato balenò sul volto del giovane accovacciato sulla panca all’angolo più buio e lontano della stanza, mentre ascoltava le parole del bardo, seduto al posto d’onore accanto al focolare della sala comune. Da bambino, quando ascoltava quella storia dagli anziani del villaggio, sognava sempre di essere lui a trovare, un giorno, l’albero del bene e del male e di liberare il Guardiano, nei suoi sogni di fanciullo una donna a dir poco bellissima che si innamorava ovviamente di lui, e portare la ricchezza e il potere alla sua gente. Ma il tempo e l’età avevano portato le necessità di tutti i giorni al di sopra di quei sogni infantili, riducendoli al momentaneo sorriso quando quelle fantasticherie tornavano alla sua mente. Eppure, ancora, ascoltare quelle parole svegliava in lui un fuoco che si agitava nel petto, ramingo e assetato di avventura e gloria.

Riportò la sua attenzione al giovane bardo che, con gli occhi chiari e luminosi, continuava ad incantare i suoi ascoltatori. Modulava la voce in base ai toni, imitando voci e rumori, tanto da far sobbalzare e pendere dalle sue labbra chiunque mentre avanzava nella narrazione, aiutato da qualche nota sapientemente pizzicata dalle corde della piccola arpa da viaggio, posata sulle sue ginocchia.

“Ma nessuno può oltrepassare la porta, gli dèi nella loro infinita saggezza sanno che l’uomo, con così tanto potere, sarebbe troppo simile a loro. Quel dono sarebbe usato per far perdurare il male che già perpetriamo in abbondanza. Il potere non porta saggezza, solo doveri, e il Guardiano lo sa.”

Rhodri* si stiracchiò, avvolgendosi meglio nel mantello di lana scura, di un colore indefinibile e dai bordi usurati e sfilacciati. In quel punto della sala, così lontano dalle fiamme del camino, il freddo dell’inverno si sentiva ma l’idea di avvicinarsi lo infastidiva; preferiva rimanere discosto, nel buio di quell’angolo, ad osservare. Gli occhi di tutti erano sul viso espressivo e dall’indiscutibile bellezza del giovane bardo, un dono arrivato per caso all’inizio dell’inverno al loro villaggio. Lì, così addentro alle montagne, i visitatori erano rari; giusto qualche mercante alla ricerca di pellicce e di erbe medicinali che solo lì crescevano. Questo voleva dire che erano tagliati fuori dalle strade più commerciali e dai percorsi dei bardi itineranti e, come il giovane che stava incantando la sua platea aveva affermato più volte: senza il suo manchevole senso dell’orientamento non sarebbe mai arrivato al loro villaggio. Eppure, vista l’accoglienza decisamente calorosa, aveva deciso di rimanere lì a svernare.

Il sorriso sul volto di Rhodri si fece più grande.

Ogni notte il letto di Aber* il bardo era occupato dal cantore stesso e almeno un altro ospite. A volte l’ospite era stato lui, a volte sua sorella, a volte era un po’ più affollato ma sicuramente mai monotono o ripetitivo. Avevano cominciato a soprannominare il bardo ‘lingua d’argento’ e non per la sua abilità nel narrare le antiche leggende. Rhodri smise di ascoltare quella voce melodiosa, mentre altre fantasticherie, decisamente più realizzabili di quelle infantili, prendevano il posto degli astratti pensieri sul Guardiano dell’albero del bene e del male. Sentì un brivido scorrergli lungo la schiena al ricordo delle mani di Aber sulla sua pelle, di quella lingua che percorreva il suo torace e si soffermava sui capezzoli, dei denti candidi dell’uomo che mordevano delicatamente, ma non sempre, quei piccoli bottoni di carne. Rivisse i languidi baci con cui Aber scendeva fino al ventre, regalandogli emozioni e sensazioni che gli erano valsi quel soprannome.

Sobbalzando, Rhodri si rese conto di avere gli occhi del bardo puntati contro mentre il racconto del Guardiano stava terminando. Deglutì, incrociando con le proprie quelle iridi azzurre e sentendosi imbarazzato per la reazione del suo corpo a quei pensieri, sopratutto perché era convinto che Aber sapesse. Sì, era impossibile che gli leggesse nella mente eppure nonostante il buio lo aveva fissato negli occhi con una luce maliziosa in essi.

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