2 - LA STREGA DI SAMBUCO

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Quando sopraggiunse l'alba, il cielo si tinse di una debole cromatura rosata. Il sole sorse timidamente alle spalle del monte, proiettando ombre sfocate tra i cumulonembi adagiati sulle pendici.

Ero rimasta rannicchiata in un angolo della sala per tutta la notte, sforzandomi di non chiudere gli occhi e mantenermi vigile. Il Viesczy era rimasto lì. Mi aveva guardata per ore, adagiato sulla poltrona in velluto dall'altro lato della stanza, con la piatta melancolia che offusca gli occhi e i gesti pietrificati delle statue.

La testa mi formicolava e pulsava, e verso le sei del mattino cedetti all'incoscienza. Mi risvegliai con un forte mal di schiena e la luce che, sparpagliandosi in frammenti iridescenti, riproduceva sul pavimento le sagome delle vetrate alle finestre.
Il sole era già alto e Gorazd non era lì.

Mi alzai, stiracchiandomi. La pelle brulicava come se fossi stata coperta da miriadi di formiche rosse. Decisi di fare un giro di perlustrazione del maniero, certa che dovessero pur esserci vie d'uscita.

Percorsi corridoi in cui il giorno filtrava a malapena attraverso le imposte polverose. Figure lugubri seguirono i miei movimenti dai quadri, e quando passai di fianco alla statua di una donna ebbi l'impressione che avesse voltato il capo.

I piedi mi condussero sulla soglia di un portone dalle ante pesanti, coperte per metà dal tendaggio color verde spento. Il passaggio si schiudeva su un corridoio dal pavimento a scacchiera, delimitato da vetrate che si affacciavano sui giardini incolti e sormontato da arcate principesche.

Bianco. Tutto era bianco e grondava di nauseante purezza. Nel muovermi attraverso la navata mi sentii incredibilmente minuscola. Sul cuore e sulla mente gravò il dubbio, senza senso, che fossi già stata lì.

Scesi nel giardino sul retro: sporgeva sul lago, lì dove si specchiavano il crinale della montagna e le nuvole del cielo d'Irlanda. Passeggiai con la mente che lavorava in fretta. Sul ciglio dello strapiombo cresceva un alberello di sambuco nel pieno periodo della sua fioritura, tra cui spuntavano mazzolini bianchi. Lì accanto, un'aquila arpia mi fissava con occhi tristi. Quando provai ad avvicinarmi, volò via e scomparve tra le guglie del maniero.

Mi avvicinai e carezzai la pianta, memore delle sue proprietà velenose.

«Sta' lontana, ragazzina!»

Un ramo mi frustò il palmo della mano senza concedermi neanche il lusso di meravigliarmi, e balzai all'indietro. Gridai, più per la sorpresa che per la paura. «Chi sei?»

«Chi sono io? Chi sei tu!» Tra le fronde fece capolino un lungo naso di legno seguito da un paio di iridi verde brillante, che mi scrutarono a dir poco risentite.

«Io... sono Beatrice.»

Stavo interagendo con una maledetta pianta.

«Io ho tanti nomi, ma per ora puoi chiamarmi Gwen. E questo è il mio giardino. Che ci fai qui?»
Osservai Gwen a bocca — letteralmente — spalancata. Nell'arco di due giorni mi ero imbattuta in uno Spriggan, un turbine di fate, un Viesczy e ora una strega. Ero sicura che lo fosse: nel mondo dei Sidhe, quando le streghe desideravano riposarsi si trasformano in alberi di sambuco.

«Sono bloccata qui. È stato Gorazd ad attirarmi nella sua trappola, e ora non so come uscirne.»

Il volto della strega si deformò in una smorfia incuriosita. Allungò un paio di braccia secche tra gli arbusti, costellate da foglioline e accumuli di resina, e protese le falangi di rami verso il mio viso: mi toccò la punta del naso, sollevò qualche ciocca dei miei capelli, mi diede pizzichi sulle braccia.

«E come fai a essere ancora viva?» chiese. Alzai la mano per mostrarle il nastrino rosso e Gwen rivelò le gengive in un sorriso percorso da venature, mentre qualche farfalla, svolazzando, le si annidava tra i capelli. «Buona trovata.»

BAZAL'TGOROD | Città di basalto (Vol. I)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora