I cani neri

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La pioggia continuava a cadere ininterrottamente da ormai quattro giorni. Il cielo aveva assunto quel colore inquietante che dava la nausea, una sorta di arancione metallico più scuro laddove i fulmini nascevano. Gli alberi si contorcevano sotto le repentine frustate del vento, li attaccava da destra, poi da sinistra, senza sosta, rendendo quelle foglie livide e nere. Il legno rigonfio e umido piangeva, piangeva insieme al cielo e urlava disperato al sole, che si era addormentato e non si sarebbe più svegliato.

Anais si voltò verso Sebastian, chiudendo le imposte della finestra dietro di sé.

«Quanto credi che andrà avanti?» disse, avvicinandosi a lui e cercando le sue braccia. Lui la guardò tristemente, i suoi occhi del verde più profondo e stanco. Sebastian non rispose, rimase a fissarla indagando con lo sguardo ogni centimetro della sua pelle, come a voler incidere nella sua mente ogni minimo particolare. Percorse con le dita le sue guance, le sue labbra, il mento, il collo, l'incavo tra le clavicole.

«Mi mancherai più del sole, Anais», le sussurrò all'orecchio, perdendosi tra i suoi capelli ricci.

Anais chiuse gli occhi, ascoltava gli scricchiolii del legno, il vento che batteva sulla porta, il respiro dolce di Sebastian e il suo cuore che scandiva un ritmo veloce e tormentato.

Erano già tre notti che Anais li sentiva, quegli ululati infernali. Probabilmente li aveva solo sognati, erano sicuramente ancora troppo lontani per essere uditi. Le avevano raccontato cosa sarebbe successo: ancora qualche giorno, ancora qualche notte, forse una settimana, o forse anche un mese. Sempre lo stesso cielo nauseante, annegato nella pioggia come un novembre infinito. Poi, d'un tratto, l'avrebbe udito: il più lungo e triste latrato, avrebbe sentito i brividi correrle sulla pelle. Si sarebbero aggiunti ululati, più forti. Si sarebbero fatti più aggressivi, numerosi, affamati. Qualcuno diceva che fosse impossibile vederli, altri giuravano di aver incontrato un grande cane nero al momento della fine. Un cane grande come un cavallo, nero più della notte e con un occhio sul petto. Il pelo incrostato di sangue e i denti gialli come quell'iride che spiava tutto.

Nessuno pareva aver capito perché avesse iniziato ad accadere ciò, avevano provato a difendersi, da qualche parte, nel nord. Ma erano morti tutti, senza eccezione. Chi era riuscito a raccontare qualcosa aveva lasciato una lettera su un tavolo, qualcuno l'aveva trovata un mesto venerdì. Il venerdì non accadeva mai niente, nessun mostro bussava alla porta della vita per portarsela via.

Era quasi surreale come il tempo paresse essersi fermato, la gente del villaggio si muoveva lentamente, dava uno sguardo distratto e cupo al cielo, trasaliva ad ogni tuono. Procedevano tutti con gli stessi gesti di ogni giorno, quando la morte era naturale e solo una parola sulla bocca degli anziani stanchi. Ora era un incubo, un odore, un colore, un mostro.

La vecchia Geneviève non aveva smesso di stendere i suoi panni, anche se la pioggia cadeva, bagnando il corpo di suo marito. Il cuore gli si era fermato, mentre era steso sull'erba un paio di giorni fa. Gli era parso di sentire uno di quei cani - che lui aveva chiamato "cavalli", poiché diceva di aver udito un nitrito sordo e rauco - e il suo cuore lo aveva abbandonato dopo qualche ora. Geneviève aveva continuato a muoversi in modo automatico, scavalcando il cadavere dell'amore della sua vita e pestando il fango e l'erba rumorosamente, come a voler coprire un qualche suono nella sua mente. Non chinava il capo, non abbassava lo sguardo sulla pelle bianca di Dominik, ma meccanicamente piegava e per poi stendere ancora quei vestiti impregnati di acqua e dall'odore umido e pungente.

Loro stavano arrivando.

Lo si leggeva sul volto di Al, che si era spinato ancora una birra, alla taverna del villaggio. Le luci erano spente, nessuno nella stanza. Tranne Al. Lui ci era rimasto da quando aveva cominciato a piovere. Aveva sempre bevuto molto nella sua vita, aveva raggiunto a fatica i cinquant'anni e quando aveva udito il latrato aveva creduto che fosse solo un'allucinazione. Sapeva che il suo fegato lo stava lasciando, ma la sua testa lo aveva abbandonato molto tempo prima.

Ma quel latrato lo avevano sentito tutti, nessuna pietà né per i bambini o i vecchi o i pazzi. Qualcuno azzardava ad un morbo nell'aria, qualcosa che aveva reso tutto il mondo folle. Nessun mostro, nessun cane, nulla. Si ammazzavano a vicenda senza alcuna ragione, mangiandosi le carni come bestie, mentre credevano di sentire e vedere quei grossi animali neri.

Loro stavano arrivando.

L'incubo era già durato più di un mese: i cani arrivavano per tutti, prima o poi.

Qualcuno sarebbe mai sopravvissuto? Qualcuno sarebbe mai riuscito a raccontare? Probabilmente questa non sarebbe mai diventata una storia, solo un resoconto frammentato delle vite prima della morte. Gli ultimi angoscianti sentimenti di fatalità e accettazione.

Una mattina, dopo l'ennesima notte insonne, Sebastian notò che Anais non era in casa. Si affrettò a vestirsi e la raggiunse fuori. Era in piedi, a piedi nudi sull'erba gelida e bruna, con la maglietta di lui che le arrivava a metà coscia. Le sue gambe erano diventate bianche per il freddo.

«Torna dentro, dai», sussurrò Sebastian, circondandole le spalle con un braccio. Anais fissava un punto oltre l'orizzonte, tra le fronde tormentate e le nubi torturate dall'arancione nauseante.

«Li ho sentiti tutta la notte», rispose Anais.

Qualcuno aveva lasciato scritto, in un paesino ad est, che prima del loro arrivo, le vittime avrebbero gustato e visto il colore delle parole. In quel momento avrebbero vissuto davvero, uno spicchio rapido e buono ma doloroso di felicità.

Anais sospirò. Inspirò di nuovo l'aria ghiacciata. «Ora so di che colore è il tuo nome».

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RACCONTO SCRITTO GRAZIE A "when the levee breaks" - LED ZEPPELIN
Si consiglia di ascoltare questa canzone durante la lettura.

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⏰ Ultimo aggiornamento: May 23, 2021 ⏰

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