In sottofondo il sussultare dei vagoni sulle rotaie, il vociare di persone impegnate in discorsi telefonici e non, rumori, ritmi prodotti da mani che, a tempo di musica - la quale sembrava esplodere negli auricolari -, battevano su parti dei corpi in quella cabina, seconda classe.
Niente luci, di mattina, quindi il buio di una breve galleria.
Solo un soffuso raggio di sole che sembrava resistere all'oscurità delineava le figure; così, piano, con il progressivo ritorno della luce nella cabina, si scoprirono delle labbra, degli sguardi, dei visi. Si scopriono e s'incontrarono.
La lentezza dei fasci che illuminavano, prima che tutto tornasse limpido, fece desiderare a quegli sguardi il ritorno dell'enorme stella calda.
Quindi, ancora progressivamente, stupore. Stupore nello scoprire bellezza, grazia, delicatezza e impossibili realtà, ovvero quelle di ritrovarsi un'opera d'arte tale su di un treno, durante un viaggio di dieci chilometri.
Quindi insieme agli occhi, le labbra: pensieri. Flussi di coscienza che mai sarebbero arrivati ad altri, ad estranei alla mente.
Quindi, ancora, interesse, attrazione e, ancora, rapimento, quasi, assuefazione.
"Siamo in arrivo a: Seoul".
Una muraglia di tensione costruita mattone per mattone, sguardo per sguardo su di un treno, poi lenti movimenti, la diretta luce del sole sul viso, porte automatiche in chiusura e...
... e non fu più nulla.