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Song: when the party is over, Billie Eilish

K A T H E R I N E

Il silenzio, quasi opprimente, che aleggiava nel corridoio vuoto, era interrotto solo da il rumore dei tacchi a spillo della ragazza.
I suoi passi, seppur leggeri e misurati, riecheggiavano in un modo stranamente inquietante, ma la poca gente che alle 7 e 30 della sera, vagava ancora per le stanze, controllando i pazienti, non sembrò curarsene minimamente.

La riservatezza era la prima regola da seguire, in quella struttura.
Nessuno doveva impicciarsi, negli affari altrui. In qualunque luogo Katherine si stesse dirigendo, non erano affari loro.

Mentre la si guardava camminare, si poteva intuire quanto fosse preparata, nonostante la prematura età.
Pure la sua postura, suggeriva, eleganza e compostezza.
Vestita del suo solito camice bianco leggermente aperto sul davanti, mostrando leggermente e in modo non volgare, la spaccatura del seno, si apprestava a raggiungere l'ala est della clinica.

Si guardò intorno, incassando diverse occhiatacce da parte dei colleghi, che le riservavano ogni giorno, da due anni a quella parte.
Tutti conoscevano vagamente la sua storia, e ogni persona presente in quel posto, dalle guardie, fino ai terapisti, volevano sapere qualcosa di più.
L'unica cosa che gli era arrivata alle orecchie era un incidente, lei l'unica sopravvissuta in quella tragedia, un trauma tutt'ora presente nella sua mente. La loro curiosità era asfissiante, e avrebbe voluto, ogni giorno di più, tapparsi le orecchie, strapparsi i capelli e urlare fino a perdere la voce.

La curiosità, era una bestia che mangiava l'uomo dall'inizio della vita.
Era fissata costantemente da tutti, e non per la sua bellezza, le forme del suo corpo, ma solo perché la gente era ricca di una cieca a e potente curiosità.

Non appena Marcus, attraversó le porte in ferro, dando definitivamente un punto finale al suo turno, lei impercettibilmente, acceleró il passo.
Continuò per poco su quel corridoio, prima di svoltare a sinistra, in un piccolo cunicolo poco illuminato.
Si appiattì al muro, quando il familiare suono delle ruote, del carretto di Rosalia, rimbombarono nel corridoio, che poche ore prima era gremito di gente.

Nessuno si era mai reso conto, che lei non se ne andava mai da quel posto. Era diventata la sua vera e propria dimora, quel freddo e apatico edificio.
Viveva in una delle tante stanzette nei sotterranei, ma non si poteva lamentare.
Altrimenti, sarebbe successo di nuovo. E quella volta lui non sarebbe stato così clemente.

I passi pesanti della donna, si allontanarono e solo in quel momento ebbe la certezza di potersi muovere.
Voleva bene a Rosalia , era diventata una figura importante nella sua vita, non di certo una figura materna, ma qualcosa che, seppur lontanamente, le ricordava la premura, e l'innata dolcezza di sua mamma.

Non l'avrebbe messa nei guai con il diavolo, ma era certa, che le avrebbe tirato l'orecchio, trasportandola fino alla sua stanza,camminando di fretta ed imprecando nella sua lingua madre.
Fece qualche altro passo, per poi ritrovarsi davanti una porta in metallo. Era rozza, un po' sporca e arrugginita, ma a lei non importava per niente.
Le interessava quello che dietro la porta, si celava.

Scavó nella sua memoria, sforzando il suo cervello, cercando, e ricercando ail famoso codice di accesso all'ufficio del diavolo.
E mentre un improvviso flash della serie di numeri dell'accesso si insunuarono nella sua testa, le sue dita avevano già preso a digitare: 14241.

Un suono metallico, simile ad una porta che strusciava per terra, echeggió lungo il corridoio ormai deserto.

Il sangue le si geló nelle vene, e sentì di improvviso le mani farsi sudate, e il colorito delle sue guance sparire.

𝗚𝘂𝗻𝘀&𝗥𝘂𝗻Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora