Parte 1

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Mia figlia Eva si trova nel corridoio di un ospedale, a passi lunghi e nervosi lo percorre per intero per poi voltarsi e compiere lo stesso tragitto.

Mia figlia Eva non voleva che la accompagnassi, perciò sto distante da lei, la guardo da lontano e mi sembra che il bianco di queste pareti d'ospedale da un momento all'altro possa inghiottirla.

Mia figlia Eva ha venticinque anni. Un sabato di Ottobre è uscita, è andata a ballare in un'affollata e rumorosa discoteca milanese. La musica risuonava forte nelle casse, si ballava con foga. Eva aveva bevuto un cocktail per porre rimedio all'arsura che quell'ambiente asfittico provocava, poco dopo era sparita. L'avevano trovata alla fine della serata, fuori, poco lontano dalla discoteca: il vestito strappato, il trucco sbavato, senza denaro né cellulare. L'avevano drogata. Eva ricordava la discoteca, il rumore, il cocktail ghiacciato che le avevano servito, poi il buio. Le amiche in lacrime, i suoi collant rotti e infine il lampeggiare delle sirene di un'ambulanza.

Mia figlia Eva oggi si trova in ospedale per esercitare il suo diritto di scegliere, scegliere di mettere fine a una gravidanza non voluta, frutto di un concepimento violento, avvenuto al seguito di un atto meschino.

Ieri sera, quando sono rincasata ho visto Eva seduta sul divano, mi aspettava:

«Vuoi scrivere pure di questo?» mi chiese arcigna; la voce carica di dolore, ma anche di disprezzo.

«Non lo farei mai, Eva!» rise, rise sonoramente, ma era una risata amara.

«Hai scritto di tutto e di tutti, persino di come hai lasciato papà, di come è finito il vostro matrimonio!»

«È narrativa, Eva. È narrativa e basta!»

«No! È vita: la mia, la tua, quella di papà! Hai scritto di tutti noi.»

«Non siamo noi, non siete voi. Sono personaggi. Alcuni hanno tratti autobiografici. Sì, alcuni ci somigliano, alcuni fatti sono veri. Niente è falso, ma tutto è finto. È finzione.»

«Smettila di dire stronzate, mamma! È vita vera e basta.»

Si ammutolì, esitò a parlare, poi riprese:

«Devi scriverla questa storia!»

«No, Eva!»

«Si!»

«Perché?»

«L'hai ripetuto un milione di volte: la felicità si vive, non si scrive. Il dolore si patisce e poi lo si mette per iscritto per esorcizzarlo e si spera che resti lì, tra le pagine di un libro. Dici che provi dolore per questo fatto, scrivi allora».

Ho esitato, ho esitato a lungo. Alla fine, ho scritto.

Nella Primavera del 1992, a Palermo, in un'assolata mattinata di metà Maggio, conobbi Diego. Il mio relatore mi aveva spedito alla Biblioteca regionale per fare delle ricerche per la mia tesi di laurea. Diego studiava filosofia, quella mattina si trovava in biblioteca, una sua collega gli aveva chiesto un aiuto con le Meditazioni metafisiche di Cartesio, lui non si era fatto sfuggire l'occasione, aveva subito accettato di offrire il suo aiuto a quella ragazza dalla chioma fluente. I capelli biondi, le labbra carnose, una silhouette da fare invidia a tutte le ragazze presenti in quella biblioteca: arcigne, con gli occhiali spessi, i capelli appena in ordine, il naso aquilino tra i libri.

«Quante storie! Se solo Cartesio non si fosse fatto tutti questi problemi non saremmo chiusi qui dentro».

Aveva esclamato la bionda, spostando all'indietro i capelli. Diego era visibilmente preso da lei, lo vedevo, lo vedevano tutti. Io facevo parte del club di quelle con la testa china e il naso fra i libri, mi si raggelava il sangue sentendola fare le solite battute. Anni dopo seppi che anche lui si era indispettito di fronte a quel comportamento: «Ero giovane, Iride! Lei ci stava, che avrei dovuto fare? Annuivo e sorridevo».

Tornai spesso in biblioteca in quel periodo. A tutti dicevo che volevo approfondire il lavoro di ricerca per la tesi, ma in realtà avevo scoperto che Diego svolgeva lì il suo tirocinio, così molto spesso staccavo gli occhi dai libri e li puntavo su di lui. Non ci volle tanto prima che lui si accorgesse dell'aria sognante con cui lo guardavo.

Di Diego mi erano piaciute le battute sagaci. Mi aveva conquistato con la sua dialettica, con le sue risposte sempre pronte, con le sue battute originali. Alternava il suo parlare forbito a forti frasi in dialetto che pronunciava con il suo accento palermitano. Parlavamo per ore in quella biblioteca, iniziammo lì e continuammo fuori. Seppi solo più tardi che Diego era il figlio di un regista palermitano. Passarono i giorni, le settimane, me ne innamorai. Pur essendo cosciente del fatto di doverci andare piano, con i piedi di piombo, il mio cuore non volle saperne, spiccò il volo. La ragione non poté far niente di fronte a quella ribellione del cuore, gettò le armi e, purtroppo o per fortuna, si arrese.

Purtroppo.

Quando il nostro matrimonio è andato sgretolandosi, ho ritenuto questo avverbio il più appropriato. Il matrimonio è come un castello di carta, lo costruisci passo dopo passo, con parsimonia, dedizione, attenzione, ma sei consapevole della sua fragilità, sai che un semplice soffio basterebbe per farlo crollare e quando succede non puoi fare a meno di indugiare per un po' su quelle carte sparse su quel pavimento, su quel matrimonio distrutto.

Per fortuna.

Il purtroppo mi è parso appropriato per molto tempo, però, oggi, penso che "per fortuna" sia l'espressione più adatta. La vita senza Diego non sarebbe stata la stessa. Magari avrei pubblicato lo stesso, avrei viaggiato lo stesso, ma con un altro sarebbe stato diverso e chi dice che diverso voglia dire meglio? E poi i miei figli, magari li avrei avuti lo stesso, ma non sarebbero stati gli stessi. Magari Eva sarebbe stata bionda e docile, Nino basso e spaccone. Diego, nonostante tutto, era stato la scelta giusta.

Una vecchia amica di mia madre diceva sempre: meglio una gravidanza indesiderata che una malattia. Quando si nasce nella miseria, non è così; le due cose sono considerate allo stesso modo. Quando dissi a mia madre che ero incinta, pianse, pianse tanto, come se le avessi detto di essere affetta da una malattia incurabile. Io e Diego non eravamo ancora sposati, quel figlio se ne andò così com'era venuto, in silenzio. Un giorno ero in attesa, un giorno non lo ero più. Ho sempre avuto l'impressione che avesse sentito quel pianto, che non si fosse sentito desiderato e che per questo se ne fosse andato. Anche Diego se ne andò, mi lasciò, andò a Roma a studiare Cinema. Con Diego a Roma e mia madre che non faceva altro che dirmi quanto dovessi essere grata al Signore che si era portato via quel figlio che sicuramente sarebbe cresciuto senza padre e senza arte né parte, presi le valigie e partii. Andai a Milano, raggiusi Gerardo, per tutti Gero. Da anni conviveva con il suo ragazzo, aveva tagliato i ponti con la sua famiglia, con i pregiudizi e in Sicilia aveva rimesso piede poche volte. Gero e Claudio litigavano continuamente: per un paio di calzini, una maglietta, la pasta troppo scotta, il film da vedere la sera. «Questa maglia è rosa», diceva uno, «è rosa cipria» ribatteva l'altro. Questi battibecchi erano un semplice contorno, la portata principale della loro relazione era costituita dalle sfuriate di gelosia. E allora le porte sbattevano, Gero piangeva; Claudio, sornione, lo guardava, e alle sue urla rispondeva con una calma e una pacatezza disarmante. Questo comportamento faceva ribollire ancor più il sangue a Gero che strillava più forte. Furono mesi strani, Gero mi aveva trovato un impiego part time come commessa, guadagnavo poco, riuscivo a far fronte solo alle spese di casa, perciò dovetti mettere da parte l'idea di continuare gli studi nella città meneghina. Proprio mentre mi crogiolavo in quel senso di impotenza, Diego venne a cercarmi a Milano.

«Sposiamoci», mi disse

«Sei pazzo», gli risposi.

Alla fine, accettai.

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⏰ Ultimo aggiornamento: May 21, 2021 ⏰

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