"Non ha importanza adesso... non ha alcun senso... non ha più senso scolpire" gemeva il giovane artista "come potrei continuare a scolpire, a rappresentare il mio mondo, quando il mondo è in lei che finisce? Oh Dei delle stelle, perché? Perché ho dato vita a qualcosa che esiste e non vive? E vero: la morte non ti avrà mai, ma neanche la vita potrà mai conoscerli: viva per l'una e morta per l'altra..." così soleva angosciarsi il giovane artista.
Lo udì un passante e rise di lui. Da luoghi lontani anche l'Arte in persona udì il suo dolore e pianse per lui.
"Con impeto smisurato" continuò l'artista, "ho lavorato a te giorno e notte... per sette giorni e sette notti ho picchiettato, levigato, tornito, finché dall' inerte ed informe blocco di granito, alta, statuaria, imponente, non sei emersa tu: il simulacro di femmina più aggraziato e desiderabile che mai sia stato scolpito. Sembri davvero un sogno scolpito, una vita superiore intrappolata nel marmo. Il viso di Dea e lo sguardo perso in un orizzonte lontano; amena e seducente come un pensiero proibito... stupenda... stupenda!".
Egli amava l'opera sua. "Nessuna tra le donne mortali" soleva ripetersi, "ti regge al pari. Loro, vuote e superficiali, non sanno guardare sotto i veli delle apparenze: mi guardano senza vedermi, hanno ribrezzo di me e mi addossano colpe che non mi appartengono; quasi avessi scelto io di pagare con le orrende fattezze di questo mio corpo il talento e la bellezza dell'anima che la natura spontaneamente mi ha offerto. Tu, tu invece, quanto sei diversa tu da tutte loro; lo sento... se soltanto Dio avesse pietà di me, come la divina Afrodite ne ebbe del buon Pigmalione, quanto potremmo essere felici...". Egli guardò l'opera sua con una strana luce di commozione negli occhi "ti amo" farfugliò quasi balbettando nel gran silenzio "e anche tu mi ami, lo so; lo sento".
"Ecco un mio degno rappresentante" si disse l'Arte "ciò ch' io penso egli fa vivere; ciò ch'io insegno egli lo soffre; ciò ch'io canto egli lo impara; il suo animo è nobile e generoso, e degno di aiuto".
E l'Arte, capendo il segreto dolore del giovane artista, restava silenziosa a meditare sui misteri del mondo.
D'improvviso balzò in piedi, e guardandosi intorno pensò al suo sacerdote; distanze illimitate li dividevano, ma ella le avrebbe percorse sulle ali del tempo e avrebbe raggiunto il cuore dell'uomo. Si, lo avrebbe aiutato; lo avrebbe fatto per lui, e per se stessa. Egli lo meritava; davvero lo meritava.
Guardato e non visto portava dentro il più nobile spirito; davvero dentro era il migliore degli uomini, o almeno questo sembrava. In ogni caso l'Arte, lo spirito dell'Arte doveva aiutarlo. Sentiva di doverlo fare: non poteva sbagliarsi. Passò come un'ombra attraverso le esperienze del giovane artista e come un'ombra aleggiò sulle sue sofferte emozioni finché, fissandosi al centro di quel fragile ego, non suscitò in lui il desiderio di essere vista; allora, da egli stesso inconsciamente evocata, gli comparve dinanzi. L'artista guardò e stupì. Mai i suoi occhi videro creatura più bella. D'uno splendore e di un'epoca inenarrabili, e di una bellezza che gli uomini non riescono interamente a comprendere, offriva a quegli occhi indifesi la più alta delle contemplazioni possibili; il solo guardarla poteva far salire le lacrime al più duro dei cuori. Della sua grazia parlavano poi l'abito e il volto, e i suoi gesti denunciavano la calma interiore di chi è scevro di macchia; fuori da ogni morale: era uno spirito supremo, non vi era sorta di dubbio... Ma egli non sapeva chi fosse.
Stupefatto alla vista della sua straordinaria luminosità l'artista non osava alzar gli occhi verso i raggi dorati emanati dal sole dei suoi; con labbra incerte e tremanti balbettò quelle parole del grande Virgilio già usate dal poeta Francesco: "Come posso chiamarti, disse, o vergine? Poiché non hai volto mortale, né umano mi appare il tuo aspetto".