Capitolo 6

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21 aprile

Passò una settimana da quando mi portarono in ospedale.
Passavo le mie giornate chiusa in stanza, senza visite da nessuna persona sennonché da infermiere e sorveglianti.
Non mi facevano più flebo ma dovevo assumere diverse pastiglie.
Assurdo come prima che succedesse tutto ciò ero la prima a cercare pasticche ed ora mi volessi rifiutare, ma dovevo.
Dovevo se volevo uscirne il più presto possibile da tutto quel casino.
Le manette, inoltre, me le tolsero grazie alle ferite provocate da esse e, al loro posto, misero una guardia che sorvegliava l'entrata della camera nella fascia oraria notturna così che se avessi voluto scappare di notte, data l'assenza di personale medico, ci sarebbe stato qualcuno.
Dopotutto ero una criminale dall'accaduto.
Non avevo ancora avuto notizie dei miei amici ma le avrei avute quel pomeriggio dato il colloquio con il mio avvocato.
Speravo stessero tutti bene e, anche se una piccola parte di me sperasse che fossero tutti nelle proprie case, sapevo che fossero nei guai fino al collo.

Mi guardai allo specchio del bagno, un buco all'interno della stanza: i miei occhi erano arrossati, evidenziati dalle borse e dai segni dei brutti momenti che passavo.
I miei giorni si alternavano di sonnolenza in cui potevo passare due giorni consecutivi a dormire, e altri in cui la presenza del sonno era nullo.
L'effetto delle pastiglie e della mia instabilità emotiva giocavano con la mia persona.
Diedi un'occhiata ai capelli che si presentavano  spenti e anche sporchi.
Li raccolsi in uno chignon disordinato date le imprecazioni per i vari nodi che si aggrovigliavano fra le dita.
Mi sa che quando cercherò poi di spazzolarmeli, rimarrò pelata.
Per non parlare della pelle: secca e pallida come mai vista.
I miei zigomi, inoltre, erano molto più evidenti data l'assenza della fame che mi perseguitava costantemente e soprattutto faceva schifo il cibo.

Mio padre, qualche giorno fa, mi portò una borsa dove al suo interno trovai dei vestiti e il necessario per i giorni in cui avrei dovuto stare in ospedale.
Mia madre, invece, non si faceva viva dalla scenata successa la scorsa settimana.
Decisi di indossare una felpa pesante per via del freddo della stanza e dei pantaloni della tuta.
L'aria condizionata nelle stanze non era presente ma cazzo, si moriva di gelo!

Bla, bla, bla! Lamenti, lamenti, lamenti.

Mi infilai sotto le coperte e accesi la tv.
Era pure questa a pagamento, neanche di questo servizio poteva usufruirne una persona depressa distesa su un lettino ospedaliero.
Che ladri!

Ehm...

Dopo qualche minuto a fare zapping, trovai un canale che producevano il film 'Alice in Wonderland', nonché uno dei miei preferiti.
Potrebbe risultare stupido e molto infantile come film ma ho sempre avuto una passione e un'immensa curiosità del racconto di Alice: una bambina bionda che faceva questo viaggio straordinario e strambo allo stesso tempo.
Da piccola desideravo essere in lei e vivere quell'esperienza.
Volevo allontanarmi per quel poco che fosse da tutti i casini della mia vita, farmi delle risate con il gatto del Cheshire, innamorarmi del cappellaio matto e tagliare la testa a quell'antipatica della regina di cuori.
Si, ero già una scalmanata da piccola, ma solo nei miei pensieri eh!
Non feci in tempo a finirlo che mi addormentai.
Fu lieve e sereno il riposo ma molto breve.

Mi svegliò una delle infermiere che ormai c'avevo fatto amicizia.
Si chiamava Grace ed era tenera come un marshmallow.
Portava i biondi ricci raccolti in una crocchia e gli occhiali da vista le ricadevano sulla leggera gobba del naso.
"Svegliati dormigliona."
Mi sussurrò con un sorriso ormai non timido come la prima volta.
Mi stiracchiai cercando di riprendermi dal sonno e scesi dal letto.
Il corpo era stanco e fiacco tanto che quando toccai terra quasi caddi.
"Attenta cara, con calma."
Mi prese per il braccio stando attenta a non farmi male.
"È ora di cambiare menu!"
Risposi facendole una linguaccia mentre lei rise alla mia espressione.
Mannaggia, cosa avrei fatto per uno spicchio di pizza in questo momento.
Forse l'avrei mangiata più perché i miei muscoli richiedevano qualcosa da poter mangiare.

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