Qualche minuto fa, davanti alla porta di casa, ho pensato di suicidarmi. “Pensato” è un termine decisamente troppo leggero, c’ho già pensato talmente tante volte, ma “deciso” suona come una promessa e io non prometto un cazzo. Se dicessi “ho deciso di suicidarmi”, sarebbe come impegnarmi a farlo, non me la sento mai di prendere impegni. Qualche minuto fa ho seriamente pensato di suicidarmi e il primo passo che mi è venuto in mente è, banalmente, quello della lettera d’addio. Mi è sempre sembrato stupido, mi dicevo: “Ma se tanto ti stai ammazzando, cosa cazzo te ne frega di dire qualcosa a qualcuno?”. Adesso invece mi sembra impensabile non farlo. Forse è semplicemente un gusto per la teatralità o un moto di conformismo verso gli antieroi che ho amato nel corso di ‘sta vita sprecata, però mi sembra di doverlo fare. Se qualcuno a me vicino decidesse di suicidarsi, mi starebbe sulle palle scoprire che non ha lasciato detto niente. Vai a morire per tua spontanea decisione, è un momento unico nella vita di un uomo e raro nel mondo in generale. Ce lo devi, egoista pezzo di merda, dicci cosa si prova. Dunque ho deciso di volermene andare da generoso esploratore dell’animo umano, eccomi qui: l’una di notte, qualche birra ed una canna d’erba discreta in corpo, a compiere il primo passo verso la fine.
Non so neanche da dove partire, come si inizia una lettera d’addio? L’incipit è importante, non puoi cominciare con un ciao a tutti. Ci vuole una frase ad effetto, sarà la frase che un paio di persone ricorderà per sempre. “La vita è sopravvalutata”. Mi piace. È semplice ed è il perfetto resoconto dei miei venticinque anni di esperienza. “La vita è sopravvalutata. Pensateci bene, non è niente di che. Probabilmente i suicidi (comprendendo i tossici che ci restano secchi) per ragioni esistenziali sono le menti più brillanti partorite dall’umanità, quelli che restano sono quelli che non vedono la futilità. Pensate che vergogna arrivare a cent’anni e non aver ancora capito che lo scopo della vita è il suicidio. Io l’ho capito a sedici anni, ma non mi sono mai fidato di me ed ho preferito prendermi del tempo.” Mi esce questo, di getto, e non so se confermarlo o meno. È quello che penso, ma mi sembra banale. Ho sempre avuto questa contraddizione, tra il sentirmi alieno e speciale e la banalità delle mie sensazioni. Poso la penna, poso il foglio, mi guardo attorno. Saranno le due ormai, solo la torcia del mio cellulare morente illumina la stanza. Era al 7-8%, non so quanto mi resta. Prendo il pacchetto di Philip Morris nuovo, lo apro con gesti più lenti della mia già lenta normalità. Non ho mai fumato, tolta la sigaretta rituale della notte del mio compleanno, queste sono le prime che abbia mai comprato. L’ho fatto perché, mentre preparavo carta e penna per la lettera d’addio, mi sono accorto che mancava qualcosa. La mia immagine non era completa, il tormento interiore ed il disinteresse sprezzante del fumo andavano inseriti nella scena. Estraggo la prescelta come un Artù re dei morti e la accendo. La prima boccata è sempre la più teatrale. È la prima scopata con una sconosciuta, imbattibile. Non perché sia effettivamente migliore, anzi, ma perché ti convinci che lo sia e quindi lo diventa. Non essendo un fumatore abituale mi distraggo e finisce che la lascio lì a fumarsi da sola, come la vita. Me ne accorgo quando è già ora di ciccarne via la metà, così, per disperazione, fumo praticamente tutto il resto in un tiro solo. Butto il mozzicone fuori dalla finestra aperta sul gelo di novembre mentre realizzo di fare proprio un po’ cagare come essere umano. Sconforto ed orgoglio della decadenza.
Penso ai miei venticinque anni ed al parallelismo tra la mia vita e quella di Hitler, fino a qui sono state incredibilmente simili. Lui, però, a 25 ha svoltato grazie alla botta di culo della Prima Guerra Mondiale, che gli ha portato in dono quel posto nel mondo e quel riconoscimento che non aveva mai avuto. Certo, lui era un guerrafondaio esaltato da ideali patriottici di grandezza, con me una ipotetica WWIII non funzionerebbe. Probabilmente finirei incarcerato dal mio stesso Paese come disertore, non troverei il senso di tutto quello sbattermi, marciare, ammazzare, dilaniare, sventrare, esplodere, morire. Non per pacifismo eh, per apatia. Forse potrei farcela se in gioco ci fossero i miei ideali di liberta, ma solo in quel caso. Ovviamente i miei ideali di libertà riguardano solo me stesso e il poter fare quello che mi pare quando mi pare. Sono disoccupato anche per quello, non sono mai riuscito a sopportare obblighi di nessun genere, fosse anche quello di alzarmi dal letto al mattino per decisione non mia. “A ‘sto punto meglio vivere di elemosino”, pensavo. Ed è così che ho iniziato.
L’elemosina pura e semplice mi è sempre sembrata arrogante. La capisco eh, ma solo se non hai alternative. Altrimenti è arroganza. All’ennesimo lavoro perso nei primi dieci giorni, dunque, ho iniziato a valutare seriamente la cosa. Un tetto sulla testa lo avevo, difficilmente i miei mi avrebbero cacciato da casa in tempi brevi, e nel medio-lungo termine sarei comunque morto. Potevo anche approfittarne almeno per un pasto al giorno, ragionevolmente. Avevo quindi bisogno di ben poco: taccuini e quaderni (uno a settimana, di media), un pasto, qualche birra e del fumo. Più le spese da ripartire su base più lunga, tipo il vestiario ed i vari biglietti per concerti, musei, film, libri da comprare. Il minimo per sopravvivere. Facendo due conti stimavo il mio fabbisogno giornaliero in non più di dieci/quindici euro. Ipotizzando di elemosinare con orari da ufficio, voleva dire meno di due euro l’ora. Ero estasiato: sopravvivere era facilissimo. Nel posto giusto, con la faccia giusta e la fortuna giusta bastava tendere il cappello per tirare su anche cinque euro l’ora, più del doppio di quello che mi serviva. Vacanza per la restante metà della mia vita. Con un po’ di culo sarei anche riuscito a crearmi la mia clientela fissa di pensionati con la coscienza da alleggerire, di quelle che ogni giorno comprano un panino in più e lo donano gentilmente ai bisognosi. Ed è esattamente così che è andata: il primo mese ho tirato su 800 euro, senza dover quasi mai provvedere in prima persona alle mie necessità alimentari. Ricevevo panini, frutta, tranci di pizza, vestiti, coperte, sigarette, anche qualche birra. Alla decima coperta ammucchiata nella mezza mansarda che occupavo mi sono addirittura sentito costretto ad andarle a donare ad altri. Chissà se anche loro pensavano, come me, “porca puttana, un’altra coperta del cazzo?”. In breve, andavo alla grande. Era il mio stile di vita ideale: nessuna pressione, nessuna responsabilità, pochi bisogni e ben soddisfatti. L’unico problema era rappresentato dalle palle che ero costretto a raccontare riguardo alla mia provenienza, alle vicissitudini che mi avevano portato lì, al posto in cui dormivo. Siete così limitati, per voi essere totalmente apatico ed inadatto a qualsiasi forma di lavoro non è una ragione sufficiente per chiedere soldi al prossimo. Io la farei riconoscere come disabilità, abbiamo bisogno di un sussidio. Sta di fatto che io, per la città di Torino, mi chiamo Ramon Orla. Sì, non è granchè, ma quando scegli il tuo nuovo nome componendo una sinfonia di lettere a cazzo di cane non può di certo uscire un capolavoro. A meno che non ti capiti una botta di culo ovviamente, ma quelle non sono roba mia. Altrimenti starei a scopare, mica a scrivere brutte lettere d’addio.
Non è stata la mossa più geniale di sempre, devo dire, un nome come quello genera domande del tipo “ah, ma sei straniero?”. No, devo essere italiano perché statisticamente siete più inclini a non odiarlo, voi e la vostra empatia selettiva su basi geopolitiche di merda. Comunque, 800 euro al mese di elemosina non erano affatto male, considerando le mie pochissime spese. Potevo anche accantonare qualcosa per il giorno in cui avrei deciso di iniziare la mia dipendenza da eroina, krokodile o fentalyn. Però iniziava a pesarmi stare tutto il giorno seduto contro il muro a non fare niente con una faccia triste ed avvilita, era troppo simile al lavoro. D’altronde niente elemosina, niente soldi, niente cibo. Era un lavoro a tutti gli effetti. Donavo benessere psico-emotivo sotto forma di autocompiacimento ai passanti, ero tipo uno psicologo di strada. Sarebbe stato figo aprire uno studio nel quale ricevere donazioni all’insegna del “aiutare me farà stare bene voi”, ma non penso funzionerebbe. Siete così limitati, conoscere il perché delle vostre sensazioni o cambiare i meccanismi che le producono altera le sensazioni stesse. Il contesto è tutto.
Mi accendo un’altra sigaretta, chiedendomi se anche lei finirà col fumarsi da sola. Mi accorgo dai gesti che faccio che anche questa è più teatralità che vero gusto, non me ne stupisco. La torcia del cellulare mi ha lasciato appena prima che potessi servirmene per cercare il caricabatterie e collegarlo alla presa. Di accendere la luce non se ne parla, dissiperebbe tutta la gravità del momento. Sono costretto a procedere a tentoni. Visto che la lettera d’addio è ancora del tutto incompleta, esco sul cornicione e da lì mi arrampico sul tetto. È una serata più luminosa del necessario, potro continuare a scirvere. Era un po’ che non salivo quassù, da ragazzino era il mio luogo meditativo per eccellenza. Il mondo ha tutto un altro aspetto se lo guardi dall’alto di qualcosa che hai “scalato” con le tue mani. Una canna sul tetto di un edificio o a cavalcioni su un muro di cinta dovrebbero provarla tutti. Sono quelle cose che ti cambiano, che ti fanno capire che il mondo non è solo quello degli schemi morali e comportamentali imparati per imitazione da genitori, amici e televisione, anzi. Ci sono talmente tanti modi di stare al mondo, questi non sono che una minima parte. Guardo le case, guardo il cielo, mi guardo i piedi. Alterno queste tre cose perché, così come per un tramonto, un’alba o qualsiasi vista carica di poesia e significato emotivo, a lungo si finisce inevitabilmente col chiedersi “e quindi?”. Che è sostanzialmente il momento in cui tutti capiamo che qualsiasi cosa al mondo è priva di importanza. Solo che non tutti tratteniamo quella sensazione. Penso che la prospettiva sia davvero, davvero importante. Guardo la lettera d’addio mezza vuota ed il bianco delle cose inespresse mi fa tornare di nuovo al periodo elemosina. Questa cosa del “sembra un lavoro” mi aveva fatto venire a noia anche lo stare per strada a chieder soldi. Nessuno stimolo, nessuna novità, il semplice avere soldi in tasca per potermi mantenere non era abbastanza. Il tutto, ovviamente, perché non ritenevo fosse già arrivato il momento di restarci sotto con l’eroina. L’erba è molto debole in questo, è un lenitivo. Ti aiuta ad andare avanti, ma non ti fornisce nessun obiettivo. Non vai a rubare alle vecchiette per un po’ d’erba, al limite vai a chiedere qualche moneta. Il problema, in sostanza, era affrontare la vita ed i suoi inevitabili impegni senza avere uno straccio di scopo. È per questo che la gente sviluppa delle dipendenze: tossicodipendenti, sessodipendenti, lavorodipendenti, poteredipendenti. Tutti uguali siamo, puoi dannarti quanto ti pare. I più fortunati sviluppano una monomania quasi perfetta e ci restano sotto, creando di conseguenza un talento, creando di conseguenza una vita accettabile. È una cazzo di fortuna nascere Michael Jordan: tu e la palla, tu e la palla. Per forza che poi diventi un fenomeno e riesci ad essere Jordan. Io non lo sono mai stato. Altro che monomania, io avevo tetra, penta, esa, ennamanie. Prendevo il pallone e mi sognavo calciatore, prendevo il microfono del karaoke e mi sognavo rapper, la chitarra e mi sognavo Slash, la penna e mi sognavo Cèline, con qualsiasi oggetto in mano io ero qualcuno. Puntualmente finivo col rompermi il cazzo, ovviamente, il talento arrivava troppo lentamente. L’attitudine da artista affermato l’ho sempre avuta, me ne manca solo lo status. Tenere conferenze, creare scandalo, provocare e innovare, stupire il pubblico, quello lo so fare. È la parte prima che mi manca: stare qui in merdonia a marcire in mezzo ad un branco di ritardati mentre cerco di sopravvivere e far conoscere i miei mille talenti. Troppo difficile. Cosa c’entra questo con l’elemosina? Mi sono perso. Niente eroina, niente scopo. Niente scopo, nessuna ragione per affrontare gli impegni giornalieri.
Ogni mattina sveglia alle sei, colazione, cagata, doccia, treno, vari appostamenti per Torino. Lì, tutto il giorno a farsi guardare strano dai passanti, ad allungare barattoli appena svuotati della carità precedente perché, si sa, nessuno fa carità se hai già cinque euro in monete da due centesimi davanti. Così, beh, nella noia mi sono messo a scrivere. È sempre stata la mia mania preferita. E poi, sono sicuro, se mi avessero visto calciare un pallone o suonare una chitarra, mi avrebbero dato al limite due schiaffi. Era un martedì, credo, e in appena un’ora avevo già tirato su dieci euro puliti. Probabilmente il semplice vedermi impegnato a fare qualcosa mi rendeva, ai loro occhi, più degno di aiuto e compassione. Giusto per sfottere il loro stupido senso morale, ho passato l’ora successiva a disegnare svastiche sul mio fino ad allora innocente taccuino. Pensa le risate se sapessero che ognuno di loro ha contribuito a far guadagnare circa tredici euro l’ora ad uno che stava disegnando simboli nazisti a raffica. Si sentirebbero forse in difetto con la loro coscienza, ma il mio bisogno di mangiare, fumare e scopare dipende forse dal mio essere poeta piuttosto che stronzo? Stare lì con una penna in mano mi rendeva apparentemente più degno anche di interloquire con la gente comune. Molte più persone si fermavano, dopo aver sganciato la granata lavacoscienza nel barattolo, a chiedermi chi fossi, cosa ci facessi lì, se avessi o meno un posto dove andare. Anche se il passaggio da “vagabondo che non scrive = analfabeta” a “vagabondo che scrive = maestro in oratoria e pieno di storie da raccontare” mi sfuggiva, mi faceva piacere poter scambiare qualche parola con qualcuno. Leniva la monotonia infernale delle mie giornate sostituendola con quella stupida delle giornate di altre persone.
Un po’ di dati: passavo mediamente otto ore al giorno “lavorando”; più o meno ogni mezz’ora qualcuno si fermava a scambiare parole di circostanza; tre quarti di queste erano di sesso femminile; due di quelle tre erano in età chiavabile, uno lo era a tutti gli effetti. Svolgendo il problema si arriva alla seguente conclusione: il mio status di barbone mi privava di quattro possibili scopate ogni stracazzo di giorno (non devo davvero spiegare perché le donne non siano sessualmente attratte dai barboni, no?). Qualcosa doveva cambiare, e cambiare in fretta. Mentre tornavo a casa con i miei quasi cento euro in tasca (quanti di voi fanno cento euro in una giornata lavorativa?) e la mia Moretti da 66 rigorosamente non pagata, pensavo a come avrei potuto ottimizzare quello stile di vita: mantenere gli introiti eliminando l’assenza di stimoli e gli ostacoli al rimorchio di ragazze/donne di cui non mi importava nulla. Visto che il racconto breve è come i film di Cuccino, l’evento risolutore si manifesta esattamente quando serve. Nel bel mezzo di uno dei miei sogni ad occhi aperti, di quelli in cui il futuro abbandona l’entropia per piegarsi alla tua volontà, eccola piombare dal nulla più profondo: l’idea rivoluzionaria. Io volevo essere uno scrittore, giusto? Giusto. Per poter essere definito tale dovevo farmi pagare, giusto? Beh, è una concezione un po’ riduttiva e capitalistica della scrittura. Indubbiamente agli occhi di chiunque, oggi, puoi essere definito scrittore o artista in generale solo se qualcuno ti paga, altrimenti hai soltanto l’hobby della scrittura. Cioè, capisci quanto questa mentalità ci sia penetrata profondamente sotto pelle? Non è più quello che facciamo a classificarci come esseri umani, ma quello che siamo pagati per fare. Che poi è un ragionamento assurdo, se qualcuno scrivesse la Divina Commedia per hobby non sarebbe uno scrittore, mentre la Parodi che pubblica Cotto e Mangiato sì. Quindi, in sostanza? Sì, devi farti pagare per poterti fregiare del titolo. Perfetto, allora fanculo alle case editrici e allo status di barbone: diventa un artista di strada. Avrei portato le mie poesie brutte ed i miei racconti banali con me durante le peregrinazioni per l’elemosina, dandole agli avventori in cambio della loro libera offerta. Al solo pensarci il mio ego si gonfiava a tal punto che mi impediva di vedere il motivo che aveva dato il via a tutto, la mia voglia di essere scrittore superava la mia voglia di figa.
Era fatta, anche il viaggio in treno mi pesava meno. Ero in una sorta di trance agonistica, scrivevo a raffica come mai mi era capitato. Sempre roba brutta eh, non basta la voglia di fare per ottenere i risultati sperati. Niente di clamoroso, ma quella sensazione di tirare fuori un pezzo di me e adagiarlo sulla carta, come un Albus Silente più giovane e maledetto, mi faceva sentire dannatamente bene. Talmente bene che avevo le allucinazioni, mi sembrava di vedere una ragazza cinese che mi gesticolava davanti. Quando poi l’ho vista porgermi un mandarino con un mezzo sorriso stampato in faccia ho detto ok, è troppo cliché per essere un’allucinazione, dev’essere reale. Lo era. Mi indicava il nome di un paese sul display del suo telefono, evidentemente aveva bisogno di indicazioni. Non parlava una sillaba di italiano. Pensa te, ho pensato, ‘sta tipa che qualche ora fa era dall’altra parte del mondo e adesso è qua davanti a me. Chissà da dove viene, qual è la sua storia, quante cose vorrei chiederle. Ho messo l’indice della mano destra sullo schermo, mi sono battuto il palmo della sinistra sul petto. Seguimi. Lei mi ha indicato, mandarinando qualcosa. L’ho accompagnata fino alla meta da lei indicata e lì l’ho lasciata. Non lo so, sarà l’aria da ragazzine sprovvedute che hanno anche oltre i trenta, ma ho dovuto baciarla piazzandole una mano sul culo prima di andare via. Sembrava spiazzata. Sapessi io, le ho detto mentre la salutavo con un cenno della mano. Probabilmente ancora adesso ne capisce più lei di me.
Il giorno dopo mi sono alzato, armato delle migliori intenzioni e della peggiore attitudine alla vita possibili, e piazzato in centro. Avevo ‘sto cartone addosso, tipo gli uomini-sandwich promozionali americani, preparato la sera prima. Indelebile nero in mano e senza pensarci: VENDO BRUTTE POESIE E BRUTTI RACCONTI PER NON ANDARE A RUBARE. OFFERTA LIBERA. Andavo in giro con ‘sti mazzi di poesie in mano come un rosario qualsiasi. Dopo i primi giorni i conti non facevano ben sperare. Tiravo su circa un terzo in meno rispetto all’elemosina pura e semplice. ‘Sto mondo gira alla cazzo di cane, a stare fermo a chiedere soldi mi riempite di donazioni, se mi impegno per darvi qualcosa in cambio mi ignorate. Forse dipende semplicemente dal fatto che la poesia non piace più a nessuno. Che poi magari non piace più a nessuno perché nessuno scrive una poesia decente dai tempi di Bukowski, e giù allora non ne erano tutti convinti. Cazzo ne so io, a me non piace la poesia. Ero lì che scrivevo e allungavo foglietti ai passanti, quando mi si sono avvicinate due ginocchia fasciate in pantaloni neri, con delle protuberanze Nike che spuntavano dal fondo. Quasi si sfioravano mentre le ho sentite dire:
“Me ne leggi una?” Ginocchia parlanti, roba mai vista. Ho alzato lo sguardo e ho sentito subito quel fricicorio solleticarmi il punto focale. Non è male, non è male. Vediamo se l’immagine da artista di strada è più efficace di quella da barbone.
“Scusa?”
“Dico, mi potresti leggere una delle poesie che scrivi per non andare a rubare?” Se ne stava lì impalata e mi guardava fisso. Braccia incrociate, gambe unite. Ho pensato che per due euro e magari una scopata potrei anche leggere qualche parola.
“Scrivo poesie corte
romanzi corti
e racconti brutti,
sempre meglio che vivere
lavorare
farsi annichilire dal dovere
dal senso morale
da chi ti ama
dalla voglia di scopare
o di essere accettato
Che poi
l'equilibrio è così fragile
prova a non bere per trenta ore
e tutto svanisce
non esistono più ostacoli
l'affitto
le rate dell'auto
le corna a tua moglie
le sue a te
vostro figlio ritardato
i tuoi sogni marciti nel cassetto
il capo che ti sputa in testa
le tasse che ti uccidono
tuo figlio che ti sputa addosso
tua madre con l'Alzheimer
tuo padre che si caga addosso
il licenziamento
l'insonnia che ti è presa da un mese
i tremori, l'ulcera
le disfunzioni erettili
i debiti
tua moglie che ti sputa addosso
la canna della pistola
fredda
in bocca tutte le sere e la paura
Non esistono più.
Esiste solo la sete
come quando ti fai in vena
e non parlo di euforia momentanea
ma di costante presenza
obiettivo da raggiungere
uno scopo, finalmente, tuo
Non è poi così male.”
Ho terminato la lettura e l’ho guardata, per capire quante delle mie parole le fossero entrate dentro e per capire lei chi era, cosa desiderava e qual era la sua visione del mondo. Pretenzioso, ma lo faccio anche dopo un “ciao, come ti chiami?”, quindi qua era lusso. Ha tirato fuori dalla tasca una moneta da venti centesimi e l’ha lanciata nel barattolo svuotato di fresco. Devo averla guardata con più disprezzo del voluto, perché si è subito scusata:
“Sai, non lavoro.” Nel mentre, però, stava già rigirandosi tra le mani un’altra moneta.
“Come ti chiami?”
“Ramon, ma non chiedermi da dove vengo. Lo fanno tutti, mi è venuta a noia la mia storia.” Ha lanciato un’altra moneta, ho visto uno scintillio bronzeo prima che sparisse nel salvadanaio delle pesche sciroppate a marchio Coop.
“Questa perché?”
“Tu vendi poesia, ogni parola può esserlo. Il 95% della poesia della storia umana non è classificata come tale.”
Oh, mi ha colpito. Non era la prima ragazza che mi stupiva, con una frase, da zero a cento, ma mi ha colpito. Era vero. Un po’ spocchioso, ma vero. L’ho sempre pensato anche io. Le cose migliori le ho scritte su Whatsapp, a persone che nemmeno hanno capito un decimo della profondità di quei concetti. Vabbè, nel mio caso è comunque come paragonare merda di topo a merda di cane.
“Quindi, per ogni frase mi darai una moneta? Ti tengo qua tutto il giorno e divento milionario.”
“Non ad ogni frase, solo quelle che mi piacciono.”
“Appunto, tutte.” Le ho guardato la mano con un mezzo sorriso, aspettandomi un terzo lancio. Un po’ di spocchia umoristica, funziona sempre. L’ha mossa solo per infilarsela di nuovo in tasca, invece, bastarda.
Non sono riuscito a capire quanti anni avesse, sul momento. Poteva oscillare tra i diciotto ed i trenta, non sono un granchè in questo tipo di giudizi. Mi sembrava imbarazzata dal silenzio, sentivo la sua astinenza da onde sonore nell’aria. Non so, ma avere di fronte una persona imbarazzata mi mette in imbarazzo. Ho dovuto spezzare l’equilibrio:
“Quindi…il tuo nome?”
“Irene. Non chiedermi cosa faccio o cosa ho fatto nella vita, sono disoccupata ed ultimamente mi sto stretta. Distribuire curricula, fare colloqui. È degradante, una messinscena. E il peggio è che ci prestiamo tutti, ci pieghiamo a questa farsa credendo che funzioni. Valutazioni, giudizi. Ma se nessuno ne capisce una mazza, dai.” Ho preso dallo zaino una poesia a caso e gliel’ho data. Al suo guardarmi strano le ho spiegato che se l’era meritata, che i soldi erano poco e dovevo comunque mangiare, che non si sarebbe mai dimenticata il giorno in cui una sua idea era stata pagata con una poesia. Ha fatto volteggiare un intero, ciccionissimo euro nel barattolo. Le ho detto che a stimarci a vicenda avremmo potuto continuare a pagarci per ore, forse ci conveniva diventare amici e migliorarci gratis.
“Potremmo farlo, ma tu non avresti poi di che mangiare.”
“Rifiuteresti un piatto di pasta ad un amico? Lo fanno in tanti eh, per quello sono qui. Piuttosto che caricarsi il peso di un fallito a cui vogliono bene, smettono di volergli bene. È per questo che il fallimento umano è così mal visto: convenienza. Lo rifiuteresti anche tu?”
“No, io no. Oddio, magari alla lunga, ma non oggi. Sono quasi le otto, siamo amici?”
“Sono amico di tutti quelli che più o meno velatamente mi offrono del cibo.”
Mi sono alzato e l’ho seguita, col mio passo strascicato. Le ho chiesto dove avesse intenzione di andare, a me bastava un panino qualsiasi. Meglio dieci kebab da Youssef che un trancio di pesce spada da Cracco, Vujadin Boskov insegna. Mi ha risposto che la sua idea era di andare da lei, non si poteva permettere di spendere nemmeno da Youssef.
“Seria? Una ragazza come te che raccoglie un brutto muso per strada e se lo porta in casa senza conoscerlo? Ti fidi?”
”Ti ho parlato, ti ho guardato negli occhi, letto quello che scrivi. Ti conosco.”
Ho ribattuto che la frase ad effetto era bella, ma in realtà di me non sapeva niente. Un assassino può essere sorridente, e generalmente chi scrive poesie è sessualmente deviato. Perché scrivere poesie, altrimenti? Si stava gettando in pasto al drago. In più, il suo fidarsi del suo stesso giudizio era del tutto antistatistico e sconveniente dal punto di vista probabilistico: per dieci volte in cui ti va bene e ti fai un amico di strada ce n’è una in cui finisci violentata, mutilata e squartata verticalmente da un coltello in acciaio inox Miracle Blade. Il gioco non valeva la candela, non pensava? Ha infilato le chiavi nella serratura di in un portone gigantesco ed aperto quella sorta di varco dimensionale.
“Abito qui.”
Siamo entrati in un ascensore troppo piccolo per mantenere gli adeguati canoni prossemici e siamo scesi al quarto o quinto piano. Il tutto, ovviamente, sempre continuando le conversazioni di circostanza che si sono ormai perse nelle memorie inutili. Viveva in un signor appartamento, per essere una che non poteva permettersi di mangiare nemmeno dall’amico Yus. Ora, io di case non me ne intendo e non saprei dire quali dettagli la rendessero tale, ma era roba da ricchi. Non so, tipo l’appartamento di Hitch nel film “Hitch”, presente? Una cosa del genere, forse leggermente meno. Comunque mi ha un po’ spiazzato. Ho evitato di chiedere spiegazioni, visto che mi aveva già detto di non voler parlare del suo passato e visto anche che tutto sommato non me ne fregava poi così tanto. Ho preferito continuare a parlare del nulla, mentre lei cucinava e io me l’immaginavo nuda. La situazione era favorevole, le possibilità di combinare qualcosa erano alte. In fondo mi aveva portato a casa sua, stava cucinando per me e, secondo lei, non avevo nessun posto dove passare la notte. Un buon cuore mi avrebbe concesso almeno il divano, e lei aveva secondo me già deciso di farlo. Giocando bene le mie carte avrei potuto ottenere una buona cena, una buona conversazione, una buona scopata e magari anche un risveglio decente e qualche soldo. Sarebbe stata indubbiamente la notte migliore della mia vita.
La pasta era ottima, la conversazione meglio ancora. Era sveglia ‘sta Irene. Sveglia e preparatissima per tutto quanto concernesse la letteratura, la poesia e l’editoria in generale. Anche di musica e cinema ne sapeva abbastanza. Era quasi l’una ed ero stato da dio. Chiaro, l’idea fissa di come tentare l’approccio fisico era come un cazzo di Damocle sulla mia testa, ma ad un certo punto ho pensato che potesse anche andare bene così. Non c’era fretta, e voglia di rovinarmi l’umore con un rifiuto non ne avevo proprio.
“Ovviamente ti fermi qui a dormire, no?” Pausa teatrale fintissima, il tono lascia intendere senza ombra di dubbio che avesse ancora qualcosa da dire.
“O preferisci tornare a casa?” Aveva un mezzo ghigno sarcastico ad illuminarle il volto, ho avuto la prima erezione da neuroni della mia vita.
“Sai, l’etichetta mi imporrebbe di usare frasi di circostanza per prendere tempo. Tipo se non disturbo, hai già fatto tanto e simili. Ma una notte là fuori è una roba che non puoi capire, quindi accetto al volo. Dormire al coperto è una fortuna su cui non posso sputare.” Ovviamente io un tetto lo avevo, ma lei non poteva saperlo e, in ogni caso, pensavo veramente ognuna di queste cose.
Ha aperto una poltrona-letto, sistemato coperte e cuscini e mi ha dato la buonanotte, senza lasciarmi spazio di manovra per fare di questa serata un capolavoro. O forse me ne ha lasciato, ma io che non sono un fenomeno non me ne sono nemmeno accorto. Sono andato in bagno dopo di lei, mi sono fatto una rapida sega in doccia e sono andato a dormire.
Mi sono svegliato poco dopo le dieci. Sul tavolo c’erano una brioche ed un biglietto, fuori dalla finestra una giornata grigia. Con la faccia ancora stropicciata e la canotta di Kobe regalatami da qualcuno, non so quando, addosso, ho dato una rapida lettura: “Goditi la tua rara notte al caldo fino in fondo. Ti ho lasciato la colazionee un’offerta per tutte le poesie, troverai i soldi vicino all’ingresso. Non rubarmi niente, per favore. Ci vediamo in strada.” La brioche non era granchè, ma i novanta euro all’ingresso la facevano sembrare stranamente più gustosa. Certo che qualcosa non tornava: ‘sta tipa era disoccupata ma viveva in un appartamento stupendo e lasciava tutti ‘sti soldi ad un barbone qualsiasi. E poi, dov’era andata? Già a portar curricula alle nove del mattino? Ecco come fanno quelli che vogliono davvero lavorare. Poveracci.
Ho versato il contenuto dello zaino sul tavolo e sono uscito, lasciando lì quella montagna di rifiuti che mi era appena valsa il compenso più alto della mia carriera da artista.
A stare quassù, con la lettera d’addio ancora più vuota che altro, sto diventando un fumatore eccezionale. Chissà perché quando uno decide di farla finita si immerge nei ricordi. Forse per tracciare un bilancio. E chissà perché quando uno ricorda gli viene da fumare, anche se non fuma. Butto l’ennesimo mozzicone e mi sporgo per vedere dove sono andati a finire. Il parcheggio della Fercam mi guarda da trenta metri sotto, ingombro di macchine degli operai del turno di notte. Che roba assurda, il turno di notte. Sconvolgere il ritmo naturale della vita perché la produzione ha bisogno di te. Produrre, produrre, produrre, come fate? Tutti come quell’infame di Stakanov, io ho a malapena le energie per farmi trascinare dalla corrente. Rileggo le poche righe che ho scritto fino ad ora: “Pensate che vergogna arrivare a cent’anni e non aver ancora capito che lo scopo della vita è il suicidio. Io l’ho capito a sedici anni, ma non mi sono mai fidato di me ed ho preferito prendermi del tempo.” Sarà la notte, la nicotina o l’odio per il capitalismo, ma mi sembra già meno banale. Voglio dire, ha una sua forza. O magari ce l’ha solo per me, mai capito. Comunque non so come andare avanti. Cos’altro dire, e a chi. Forse i parenti stretti meriterebbero una menzione. Almeno un’assoluzione, per non lasciargli il rimorso come unica eredità. Ma non so, è un credibile che un suicida dica a tutti: “Tranquilli, non è colpa vostra”? Dubito ci crederei fino in fondo. Eppure non è colpa loro, davvero. Cioè, indirettamente potrebbe anche esserlo eh. Che so, un piccolo trauma infantile che ha dato il via al mio essere uno zero totale. Però andiamo, se anche fosse stato causa loro, sicuramente non era intenzionale. E ancora più sicuramente non sarebbe un errore punibile con un rimorso così grande. Proseguo: “..Non è colpa vostra. Non è colpa di nessuno, nemmeno mia. Io ho fatto il possibile, ma non riesco a farcela. Non ho grossi rimpianti né grossi traumi alle spalle, voglio solo smettere di svegliarmi ogni mattina essendo me.”
Per quante settimane ho aspettato che Irene si ripresentasse? Ci ho messo un po’ a perdere le speranze, almeno un mese. Ogni giorno, nel mio vagare in cerca di compratori, stazionavo almeno due ore nell’angolo di Piazza Castello in cui l’avevo incontrata. Mi era entrata sotto pelle senza un vero motivo. Forse l’atipicità dell’incontro. Non pensavo nemmeno a scoparla, ero solo incredibilmente curioso riguardo a ciò che mi avrebbe raccontato di sé al secondo incontro. Ovviamente sì, pensavo anche che avrei voluto scoparla. Però non vuol dire, ci sono molte persone che preferisco come persone che come scopate. È passato praticamente un mese e mezzo prima che ricevessi la sua telefonata, proprio mentre avevo il pollice pronto a sganciarmi la bomba di roba dritta nella mia vene preferita. Una bomba che a confronto Hiroshima, Nagasaki, bomba-H e bomba zar erano della Marlboro Light. Oleg mi aveva garantito la morte più goduta di sempre, a patto che aspettassi almeno una ventina di giorni prima di portarmi la democrazia nell’organismo. Non mi squillava il telefono da giorni, quindi lo stupore ha avuto abbastanza forza da strappare il pollice dalla siringa. Riassunto veloce tra la colazione in appartamento di sconosciuta e la siringa a bordo strada: ho pensato a Irene fino a smettere di pensarci; ho continuato a scrivere ancora per qualche tempo, poi ho rinunciato; ho dato e preso più pugni che baci; ho passato un paio di notti in un paio di caserme; mi sono buttato fuori casa per liberare i miei dal pesante obbligo di vedere il proprio fallimento ogni giorno; la birra non mi bastava più, la vodka non mi bastava più, il fumo non mi bastava più, l’erba non mi bastava più, gli acidi, le anfetamine, la coca non mi bastavano più, stare al mondo non mi bastava più. Ho guardato il display e risposto con l’ago ancora ben piantato.
“Ehi, Ramon. Sono Irene.”
“Ti ricordi? La disoccupata che ti ha preparato cena e letto. Ti ho rubato il numero di telefono quella sera.”
“Mi ricordo, mi ricordo. Dimmi. Come stai?”
“Molto bene, bene. Tu? Sei sempre per strada o ti sei sistemato?”
“Stavo per farlo.”
“Senti, avrei bisogno di parlarti. Dove sei adesso?”
Dov’ero? In mezzo ad una strada qualsiasi, tutte uguali le strade.
“Eh, è complicato. Dimmi dove sei tu, ti raggiungo io.” In realtà non ero sicurissimo di volerla raggiungere. La siringa era ancora lì, non mi andava di sprecarla. La scelta era tra la curiosità orientata alla delusione e quella orientata alla distruzione. Alla fine ha vinto l’istinto di sopravvivenza, come sempre. Mi sono sfilato l’ago e mi sono messo in cammino con la spada ancora in meno. Mi guardavo attorno, schizzando con quel prezioso liquido ignari passanti, rendendoli improvvisamente degli isterici preoccupati per la propria salute. Un balzo clamoroso: da automi annoiati e apatici ad amanti della vita. Dovevano ringraziare Ramon il quasi tossico, Ramon l’ignorato.
L’ho raggiunta al bar da lei indicatomi, trovandola seduta ad emanare più ricchezza della volta precedente. Ma forse ero io ad essere diventato ancora più povero. Ci siamo salutati ed abbiamo cominciato con le frasi di rito, banali e sempre più fastidiose, mentre il resto della clientela mi (o ci?) guardava in modo strano. Probabilmente puzzavo anche. Lei mi ha chiesto cosa stessi facendo prima della sua telefonata, le ho risposto che mi stavo per iniettare una dose letale di eroina per diventare una statistica. Un titolo nel TG della sera, se mi andava bene. Penso non mi abbia creduto. Ero ormai giunto a quel punto della vita in cui fai talmente schifo che se provi a raccontarlo non vieni creduto. Un altro proiettile nella mia arma dell’orgoglio del fallimento. La guardavo fissa negli occhi, aveva un’aura surreale. In fondo era la prima cosa che mi capitava di guardare per davvero dopo la mia morte non avvenuta. Ero praticamente un redivivo, logico che mi sembrasse tutto più intenso del normale. Le ho chiesto se potevamo spostarci nel tavolo più lontano dal bancone, quello all’angolo, così che potessi almeno farmi un decino di coca. In fondo mi doveva una bomba di Oleg. Non sembrava d’accordissimo, evidentemente la droga aveva ancora dell’imbarazzo a qualcuno. Comunque non ha potuto fare altro che seguirmi, a quanto pare aveva qualcosa di importante da dirmi. Ha iniziato un pippone preparatorio mentre io allestivo la pippata, mi piaceva la sincronia. Ha detto qualcosa sul suo lavoro, sulle sue funzioni, ma io me la immaginavo tutta bianca e imbustata che si divideva in centinaia di strisce lunghissime. Mi parlava di libri, di poeti e del suo lavoro, non ci capivo davvero più un cazzo. Finito di preparare il decino l’ho guardata, ho annuito senza motivo e ho tirato, il resto del mondo era ormai sparito. La botta mi ha stappato le orecchie o il cervello, la capivo di nuovo. Mi stava chiedendo se fossi interessato a firmare il contratto il prima possibile.
“Contratto? Cosa cazzo stai dicendo?” Non riuscivo ancora a chiudere la bocca.
“È mezz’ora che te ne parlo, Ramon. Per il libro.”
“Quale libro? Non posso comprarti un cazzo, mi spiace. Sono a zero, e penso tu possa capire da sola dove finiscono i pochi euro di cui dispongo.” Avevo una voglia incredibile di insultarla, chiavarla, pestarla. Ma ormai sapevo distinguere tra ciò che volevo e ciò che voleva la droga. Volevamo le stesse cose, io avevo in più solo il filtro di giusto e sbagliato.
“Il tuo libro, svegliati. Ti sei fulminato il cervello?” Di getto avrei risposto “non ho nessun libro, tutti i miei possedimenti mi stanno addosso”, ma il dubbio riguardo le mie facoltà cognitive mi ha spinto a riflettere mezzo secondo in più. E meno male, mi ci sono evitato una figura di merda. Sul tavolo c’erano alcune delle mie poesie ed uno dei racconti, roba che avevo nello zaino quella mattina. Iniziavo a capire, senza volerci davvero credere. I continui schiaffi del destino mi hanno reso scaramantico a manetta. Mai esultare prima della certezza, mai. Per la prima volta la tachicardia emotiva superava quella da coca. Mi girava la testa, mi battevano le tempie. Forse mi ero davvero sparato la bomba e Oleg aveva mantenuto le promesse. Il che poteva significare che stavo per morire, o magari ero giù pure morto. Irene mi stava fissando, io avevo ancora la bocca aperta.
“Ci sei? Stai bene?” Stavo bene, troppo bene. Non mi tornavano i conti.
“Cioè, tu intendi un mio libro? Scritto da me? Pubblicato?”
Mi ha spiegato, ormai spazientita quasi al massimo, che me lo aveva appena spiegato. Che le mie poesie avevano qualcosa, ed i racconti erano abbastanza spendibili sul mercato. Con un adeguato lavoro di marketing sulla mia figura avrebbe potuto farmi diventare un fenomeno editoriale di nicchia, con letture nei pub e flash mob per le città d’Italia. A me sembrava esagerato, ma bisogna anche dire che di marketing non ne capivo un cazzo. Ad ogni modo,vista la mia leggerissima tendenza a voler avere sempre ragione, mi sono messo a polemizzare e a proporre idee prima ancora di parlare degli aspetti importanti, o di quale collegamento avesse lei, disoccupata, con l’editoria.
“Ah, l’ho visto fare a Rancore per le strade di Roma, figo.” Le dicevo. “Un rapper romano”, le spiegavo, aggiungendo che un po’ di cultura musicale non avrebbe potuto farle che bene.
“Penso che per vendere alla grande un prodotto del genere dovremmo creare un’immagine attorno all’artista, proprio come accade per i rapper, prendendo dalle loro strategie di marketing notevoli spunti. In fondo il pubblico a cui ci rivolgeremmo è praticamente identico.” Quanto diventavo propositivo dopo aver tirato di coca, mamma mia.Avrei dovuto vivere così tutta la mia vita, a quest’ora sarei già dittatore. O morto, in ogni caso più avanti di come sono ora. Lei, giustamente, mi ha frenato. Ha detto che il suo capo aveva approvato la cosa solo in via preliminare, prima di decidere e firmare voleva incontrarmi. Perfetto, ho pensato, ho ancora un’occasione d’oro per sputtanare tutto. Ho detto a Irene che non avrei potuto rendermi più presentabile di così, massimo massimo potevo concedermi una doccia. Sempre che lei me l’avesse concessa, ovvio.
“Stai tranquillo, fino alla firma del contratto di pubblicazione della tua immagine non ci interessa. È da lì in avanti che dovrai iniziare a lavorarci. Sono le due, chiamo e organizzo l’incontro per le cinque. Nel frattempo ti porto da me e ti dai una lavata.”
Un’ora dopo ero già lavato nel suo salotto, con addosso i vestiti che si era preoccupata di farmi trovare nel bagno. Pantaloni neri di una tuta, maglietta bianca a tinta unita di due taglie più grandi.
“Ti ricordavo più grosso” dice, con un sorriso a mezza bocca.
“Ti facevo più intenditrice di moda” dico, a cazzo di cane.
Avevamo ancora circa un’ora e quaranta prima di partire per andare ad incontrare il suo capo, e io non ero sicuro di poter resistere dal rovinare tutto baciandole il collo ogni volta che si girava. Mi sembrava di percepire una certa ammirazione da parte sua nei miei confronti, ‘sta cosa mi eccita sempre moltissimo. In più, tutta la comunicazione non verbale della provvidenziale cacciatrice di talenti letterari sembrava diretta al: se fai la prima mossa, crollo. Fortunatamente il decino di coca non era carichissimo e l’entusiasmo stava già di nuovo tornandosene nella velina. Abbiamo parlato della sua vita, della mia vita, di libri e di droga. Tutti gli argomenti degni di una conversazione tra uomo e donna che cercano di resistere ai propri istinti. A quel punto gliel’ho chiesto, se secondo lei quel tempo non sarebbe stato impiegato meglio raggiungendo almeno un orgasmo a testa. Il solito, vecchio dilemma esistenziale: non starei meglio a scopare? Pure Guccini diceva una roba simile, mi pare. Lei ha cercato di dissimulare quella punta di imbarazzo, ma si vedeva che durante i suoi ventinove anni aveva passato più tempo a fare sesso che parlarne. Per molte ragazze è ancora più facile fare un pompino che nominarlo. Siamo ancora distanti dall’emancipazione sessuale, ma ci arriveremo. Per fortuna. Va detto che nel caso di Irene anche la situazione non aiutava: in casa, sola, con un potenziale disperato che aveva appena tirato di coca, per cui sembrava percepire una certa tensione erotica.
Comunque. Tra vite, droghe e tacite promesse di futura reciproca soddisfazione si era fatta ora di uscire. Ero stranamente teso. Voglio dire, qualche ora prima ero a quattro centimetri di stantuffo dalla morte per overdose, essere agitato per una questione dei vivi mi faceva un effetto particolare. Non succedeva da tempo. Era anche diverso tempo che non salivo sul sedile anteriore di una macchina. Il parabrezza ampio, la complicità che immediatamente si instaura con chi guida, tutte sensazioni dimenticate. Tra i cinque e gli otto minuti di traffico, e già eravamo più intimi. Adesso sì che sarebbe stato facile combinarci qualcosa. Invece, grazie al solito tempismo distruttore di opportunità, ci toccava raggiungere il capo di Irene, al quarto piano della sede dell’editore. Mondatori, Feltrinelli, Einaudi, Corbaccio, non mi interessava. Tutto ciò che contava era il mio cambio di status, da barbone a scrittore. Per esere chiari: non era l’aumento del conto in banca a stimolarmi, nemmeno il poter comprare una casa e dormire al caldo. Essere una risposta diversa al “cosa sei?”, questo volevo.
Nemmeno me lo ricordo, il capo. Né il nome, né la faccia. Anche se il portafogli e la posizione in azienda dicevano dirigente, lui restava l’impiegato servile che probabilmente era sempre stato. Nulla contro le persone servili, hanno semplicemente una debolezza diversa e più utile delle mie. Ho sempre trattato i servili come tratto gli arroganti: con indifferenza. Cambia niente a me. Lui, invece, sembrava intimidito. Dal mio atteggiamento, da qualsiasi sguardo umano o dal suo ritenermi artisto, non l’ho mai capito. Probabilmente l’ultima, visto che lui con gli artisti ci campava e non poteva sbagliare. Dal canto mio, io ero intimidito dalla paura che la legge di Murphy potesse colpire anche quella volta. Giocavamo ad armi pari. L’incontro non è durato molto, il tizio mi ha ripetuto più o meno quanto mi aveva già detto Irene. Volevano fare di me il nuovo artista maledetto di punta, visto che in Italia non ne esistevano. Scrivevano tutti per il pubblico, e una parte di questo pubblico se ne era stufata. L’idea era di raccogliere i tre racconti di cui già disponevano, riadattarli leggermente per renderli più commerciabili e venderli in discreto numero grazie ad un’imponente azione di marketing. Sia per quanto riguardava l’opera, sia per quanto riguardava me. Gli ho risposto che non c’era problema, facessero quel che volevano. A me interessavano solo il pagamento e lo status di scrittore che questo avrebbe comportato. Ho chiesto il permesso di fumare nell’ufficio, il capo me l’ha accordato prima di capire che ovviamente non stavo parlando di sigarette. A quel punto, però, non poteva più mettersi contro il suo artista maledetto. Chissà come avrebbe reagito. Povero capo, più di quarant’anni ed era ancora turbato dalla presenza dell’erba. Mi sono appoggiato alla finestra e ho portato l’argomento sul compenso. La risposta mi ha soddisfatto, ho firmato e ce ne siamo andati. Forse non è andata proprio così in scioltezza, ma il ricordo è un po’ compresso. Una volta saliti in macchina, Irene mi ha chiesto se mi andasse di stare da lei in quei giorni “Sai, per iniziare a discutere delle questioni tecniche della commercializzazione del libro. Almeno fino al bonifico dell’anticipo, quando potrai affittare un appartamento e levarti dalla strada.” Sembrava più eccitata di me a riguardo. Per lei sarebbe stato il compimento di una buona azione, per tutto il resto della sua vita avrebbe potuto raccontare di come avesse preso un tossico senzatetto per trasformarlo in artista quotato. Io, invece, avevo paura. L’idea di tornare ad avere una vita che valesse qualcosa, con responsabilità e impegni, mi spaventava. Il comfort del fallimento era difficile da abbandonare.
“Si può fare. Ma ho già passato una sera da te senza provarci, non ricapiterà.” La schiettezza non funziona quasi mai con le donne, ma la mia non era una strategia. Perdi la maggior parte dei freni inibitori quando non ti interessa più chi sei.
“Non ti preoccupare, sono abituata a respingere le avances.”
È fatta, ho pensato, la legge di Murphy colpirà a casa sua. Ci proverò, mi respingerà, insisterò, mi denuncerà. Avete questo modo di fare le preziose che ci fa sentire dei maniaci anche quando ci volete. Sarà per questo che poi qualcuno lo diventa per davvero? Mah, mi sembra poco. Quella sera la cena era adatta ai miei standard, semplice pizza e birra. Per le dieci avevamo già finito di mangiare, le ho chiesto se volesse fumare. Tabacco per la mista non ne avevo, quindi eravamo costretti a fumare bene. Ha accettato, senza darmi modo di capire se per lei fosse normale oppure no. Ho preparato tutto mentre Irene apriva una bottiglia di rosso, l’aspetto era di qualità ma io non ne capisco un cazzo. Era praticamente fatta, mi bastava lasciare che fosse lei a bere e fumare la maggior parte. Gli esseri umani sono tutti animalescamente uguali. Verso mezzanotte, a bottiglia finita, quando si è girata verso il lavello, le ho scostato i capelli e iniziato a baciarle il collo, avvolgendola con le braccia. Mi ha lasciato fare per qualche secondo, poi si è girata.
“Sei di parola e questa sensazione non è male, ma non succederà.” Naturalmente non avevo nessuna intenzione di fermarmi. Con le mani ancora sui suoi fianchi ho tentato di nuovo l’affondo, stavolta con una lentissima passata di lingua lungo tutto il collo disponibile. Mi ha ripetuto ancora una volta “non succederà”, prima di darmi una pacca sulla spalla e sfilarsi dalla mia presa. Avevo fallito. Aveva stranamente resistito ad erba e vino. Mi ha portato coperte e cuscino per la notte.
“Avrei ancora voglia di fare due parole, ma immagino che per te sarebbe difficile.” Lo era eccome. È dura tenere a bada gli ormoni disinibiti in una situazione del genere. In più, avrei dovuto sostenere una conversazione e sembrare nel contempo intelligente. Sforzo titanico. Le ho dato ragione e sono andato a farmi una doccia. Avevo il 100% di masturbazioni all’attivo lì dentro, non intendevo abbassare la mia media. Quando una donna ti respinge dopo una serata eccitante sembra che il cazzo ti debba esplodere. Gonfio e ipersensibile, ci ho messo un attimo a venire dappertutto, mentre immaginavo di raggiungere Irene nella sua stanza. Una volta fuori ho preso il telefono per scrivere una poesia e pubblicarla sulla pagina Facebook creata apposta per quello. Avevo scelto un nome a caso, Antimonio, e c’erano addirittura due persone che ogni tanto lasciavano un like. Chissà come ci sono capitati, sulla pagina. Faceva così:
Scrivere poesie nel 2017
è come farsi una sega sotto la doccia
e venirsi sui piedi
con l'acqua che ti bagna la testa
ti scivola sui coglioni
e ti incolla lo sperma addosso
e tu ti lavi, ti lavi
ché tanto sei rilassato dall'ossitocina
ma non va via
resta sempre appiccicato da qualche parte
mani, cazzo, piedi, vasca, tenda
e tu non sai più dove guardare
e ti prende il panico
un ossessivo-compulsivo lavasperma
vorresti solo non esserti mai masturbato
o aver preso una penna in mano.
Era la prima volta che scrivevo completamente nudo. Non cambiava un cazzo.
Sono rimasto da lei cinque giorni, poi è arrivato il bonifico e ho affittato un monolocale squallido per tre mesi. L’idea di avere la certezza di un tetto per così tanto tempo mi dava un’euforia tale che la coca mi serviva solo più per non sentire bisogno di coca. Un bel passo avanti. D’altro canto, il fatto di avere una disponibilità economica normale non mi aiutava per niente. È facile darsi allo straight edge solo se sei povero in canna o non sai cosa sia la droga, altrimenti è un casino. La droga è meglio della vita vera, è questo il punto. Sai cosa ti aspetta, cosa ti dà e cosa ti toglie. In quelle settimane di limbo, tra la firma e l’inizio del tour promozionale, cercavo di uscire di casa il più possibile, portandomi dietro solo un po’ d’erba. Ne stavo venendo fuori agevolmente e senza aiuto, uno spettacolo. Ogni tanto riuscivo pure a rimediare qualche ragazza. Sembrava che a ‘sto giro la botta di culo fosse arrivata per davvero, e bella piena. A quel punto il centro della mia ansia si era spostato sul tour. Cosa mi avrebbero fatto fare, quanto avrei dovuto recitare, gli impegni, le pressioni. Non sarebbe stato facile, so che in tanti si fanno schiacciare da cose come queste. E in quanto a farmi schiacciare io ero un talento naturale. Un fragile sfigatello sopravvissuto per miracolo fino a venticinque anni. Poi c’era sempre la possibilità che la mia scrittura non funzionasse. Non mi sembravano gli editori più svegli di sempre, Irene e il boss, potevano anche aver preso una cappella clamorosa. Potevano sbagliare la strategia di marketing, potevo non essere capito dal pubblico. In tal caso mi sarei trovato, di lì a qualche mese, nella stessa condizione di prima, senza bomba di Oleg e con un grosso fallimento in più sulle spalle. Sarebbero stati cazzi da cagare. Nell’attesa della chiamata non riuscivo nemmeno a scrivere altro. Cioè, a malapena le poesie brevi e brutte da pubblicare su Antimonio, niente di serio. Mi sentivo fermo, in attesa che il mondo decidesse per me che strada intraprendere.
Una sera, dopo aver scritto ad Irene ed essere stato ignorato, mi sono fatto un decino e sono uscito. Giravo per Torino in preda al senso di realtà che solo il post pippata ti può garantire. Ho sentito tre ragazzi che parlavano di politica, dandosi ragione a vicenda. Non ricordo riguardo a cosa, né che schieramento difendessero. Erano ben vestiti e pettinati, ma non voglio cadere nel cliché di attribuirgli una determinata idea solo su queste basi. Comunque, ho iniziato a difendere l’idea opposta, accusandoli di non capire un cazzo. Semplice provocazione, non avevo voglia di discutere. Avevo voglia di provocare e, magari, litigare. Loro dicevano bianco, io dicevo nero; loro dicevano USA, io dicevo Russia; loro dicevano Madre Teresa, io dicevo Hitler. Non ho mai preso tante botte come quella sera, nemmeno da vagabondo. Sono tornato a casa gonfio e sanguinante senza sentire assolutamente niente. Ho sputato rosso sullo specchio, chiedendomi fino a che punto fossi già morto. Speravo si formasse magicamente una scritta, ma il sangue si è limitato a colare fin sulla ceramica lordando tutto. Di sicuro non sarei stato io a pulirlo, l’ho lasciato lì a incrostarsi. Forse mi stavo nuovamente beando del mio degrado, come avevo sempre fatto. Quanto mi piaceva vedermi fallire mentre tutti mi dicevano quale enorme potenziale avessi. Non avete mai capito un cazzo. Mi è tornato in mente in quel preciso momento un pezzo di non so più chi che faceva: “chiedilo a Kurt Cobain come ci si sente a stare sopra a un piedistallo e non cadere.” Un gran pezzo, avrei dovuto cercare il titolo su internet ma non avevo nessuna voglia. Mi sono messo a cagare, la cagata dell’intossicazione. Guardando la mia faccia insanguinata ingabbiata dal sangue sullo specchio mi è tornata in mente un’altra frase: “la vita è fatta di sangue e merda.” O era la politica? Mah, la memoria aveva iniziato a mandarmi impulsi casuali, ma almeno funzionava ancora. Me ne sono andato a letto, e non ho visto il messaggio di Irene in cui mi chiedeva di raggiungerla se non il mattino dopo. Mattino, sarà stato dopo mezzogiorno. Anche il messaggio si era moltiplicato, era adesso accompagnato da una decina di fratelli e qualche chiamata. Ancora a letto con la mano sull’alzabandiera ho letto di cosa si trattasse. A quanto pare la sera prima era di cattivo umore, allora ha aperto una bottiglia di vino e poi mi ha chiesto di andare da lei per fumare e fare due chiacchiere. Se da me cercasse conforto o dell’erba ancora non l’ho capito. Io, comunque, dormivo. Era sola, abbandonata nel mondo dei nottambuli tristi. Quando ha capito che non avrebbe ricevuto risposta mi ha mandato qualche altro messaggio, per scusarsi, più qualcuno quella mattina per dirmi che la promozione era pronta e potevamo partire con la prima data. Le chiamate erano del boss, infatti. Le ho risposto che prima di iniziare a sputtanarmi avrei voluto passare almeno una notte con lei, non potevamo iniziare dal giorno dopo? Non avrebbe mai accettato, ma dovevo chiderglielo. Ha detto che non ne avremmo avuto il tempo, con più emoji del dovuto. Quanto migliorano la comunicazione scritta, le emoji. Un giorno verranno canonizzate nella letteratura, saremo dieci volte più espressivi. Io, dal canto mio, ho ribadito che sono molto veloce e potevamo occuparcene anche nel retro del primo libraio del tour, ma lei si è limitata a ridere e a comunicarmi che la prima tappa era una lettura in un pub per cantanti emergenti. Questa mi era nuova, come si fa una lettura? Cioè, una poesia va interpretata e io non sono mica un attore. E poi, la gente ci cantava e io andavo lì a leggere come all’asilo? Sarebbe finita in merda, di sicuro.
Infatti è finita più o meno così. Ho provato a baciare Irene tre volte e sono stato respinto tutte e tre. In fondo lei stava cercando di consolarmi per la serata così così, e un bacio è spesso consolatorio. A quel punto dovevo consolarmi per la serata così così e per tentati baci andati a vuoto, era ancora più difficile. Mi ha lasciato a casa (continuavo a non voler guidare), salutandomi con un “non ti abbattere, è andata meglio di quel che credi” non so fino a che punto finto. Brava attrice, discreta motivatrice o imbecille completa, difficile dirlo. Lo specchio del bagno era ancora insanguinato, mi ha messo tristezza. Senza un motivo. Pensavo alla lettura andata male, ai baci rifiutati di tutta una vita, al sangue sputato dalla mia parte reale e da quella metaforica, e nessuna di queste cose aveva un senso. La banalità del male. Per me non è il nazismo, è questa qui. Ho aperto una birra che probabilmente nemmeno volevo. Fumato una sigaretta con la stessa attitudine, volevo una conversazione. Penso sia per quello che le persone si sposano: la certezza di una conversazione quando si fa sera, niente di più. È ragionevole, in fondo. Monogamia in cambio di silenzi riempiti, scambio equo. ‘Sta merda di lettura, non poteva girarmi bene? Un punto di partenza decente, ne ho sempre sentito la mancanza. Altri venti, venticinque minuti di pensieri inutili e mi sono addormentato, dritto sul divano. La mattina dopo chi se la ricorda, tutti uguali i risvegli post fallimento. Rimpianto, cappuccio e brioche al non pensarci mai più. È girato anche l’anno, mentre io ero probabilmente troppo bevuto, fatto o apatico per accorgermene. Tre, due, uno, auguri e tutti a fare schifo come prima. Ero in fenomeno già di mio in questo, cazzo mi serviva il capodanno. Continuavamo con le lettere e la promozione, comunque. Tutto sommato non andava male, stavamo costruendo un nome. Abbiamo passato qualche mese così, ho venduto abbastanza e guadagnato bene. Finito il tour, si iniziava a parlare di un secondo libro, qualcosa di narrativo. Il boss mi aveva addirittura invitato a casa sua per parlarne. Avvolto dalla sua poltrona mi ha fatto il classico discorso riguardo al mercato, mungere la mucca finchè dava latte, cavalcare l’onda. Io ero d’accordo eh, cazzo me ne frega della letteratura. Avere abbastanza soldi da poter non lavorare e scoprire se quello stile di vita riesce a non ucciderti, è tutto lì. Solo, la narrativa è un fottutissimo casino. Personaggi, trama, ritmo. Con le poesie bastava buttar giù parole, non mi sentivo all’altezza di scrivere qualcosa in grado di vendere. Così l’ho detto al boss, ho preso tempo e ho chiamato Irene. Mentre il telefono squillava, invece di pensare con ansia a come impostare la voce e con cosa iniziare la conversazione, pensavo a quanto si fosse ristretta la mia galassia di rapporti umani. Non più di tre, quattro persone con cui parlare sporadicamente, e senza mai dire davvero qualcosa. Presumo sia così per tutti.
“Ramon, ciao. Dimmi.”
“Ehi, ascolta. Ho parlato col boss.”
“Hai ancora problemi coi nomi propri?”
“Sempre. Vuole un secondo libro, narrativa. Ho preso tempo, ma penso che lo manderò affanculo. Ci vediamo?”
“Meglio, sì. Possibilmente prima di sputtanare tutto. Stasera?”
“Stasera.”
La sera. Eravamo da me. Lei cercava di convincermi di quanto un bel romanzo fosse una grande idea, io pensavo a come avrei dovuto comportarmi per avere le più alte probabilità di riuscire a scoparmela. Niente di nuovo, niente di offensivo. La vita va così per tutti, a maggior ragione per gli stronzi come me. Ero uno stronzo che aveva praticamente smesso con la coca, oltretutto, stavo migliorando, io. Dentro l’ego da soddisfazione professionale, fuori un tipo di droga. Un’altra decina di best seller e sarei stato finalmente libero. Come fai a non sentirti una nullità, in ogni caso? Lei parlava, a me non interessava, era infinitamente migliore di me.
Forse è per questo che adesso sono quassù, in piena notte. Cioè, anche per questo. Accendo un’altra sigaretta. Decido che sarà l’ultima, butto giù il pacchetto. Diciotto sigarette gratis, città. Con “questo” intendo una serie infinita di cose: il sentirsi una nullità, l’aver bisogno di una dipendenza, il non riuscire mai a scopare abbastanza, il fatto che il suicidio comporti molta più pressione del fallimento sistematico. Non ne ho idea, non sono un cazzo di psicoterapeuta. Mi alzo in piedi, guardo la trentina di metri che mi separa dalla morte. Sono pochi, penso. Mi sembra di riconoscere il pacchetto mezzo aperto, ma da questa distanza potrebbe essere anche vomito di cane. Penso che non ho mai avuto un cane. Mai ucciso un uomo, mai fatto tantissime cose prive di significato come tutte quelle che invece ho fatto. Con le punte dei piedi assaporo giù il vuoto. “Vuoto” è una delle mie parole preferite. Faccio un passo indietro, torno dentro e mi metto a letto. Domani non lo so, ma oggi non mi suicido.
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Non succede mai niente
General FictionNon succede nemmeno che mi metta a scrivere una descrizione.