Capitolo 1

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Quando una persona viene scaricata, di solito soffre molto.

L'ho letto in un libro. O era un film?

In ogni caso, può succedere in vari modi. Se qualcuno viene lasciato per sempre dal fidanzato o dalla fidanzata, può scoppiare a piangere. Oppure urlare, strapparsi i capelli, tirare uno schiaffo.

Quando qualcuno viene lasciato, può fare davvero moltissime cose, quasi infinite. Alcune di queste cose sono pericolose e illegali.

Sono preparato praticamente a tutto.

In questo caso, però, le cose non sono andate come mi aspettavo. Perché, quando ho detto a Susanna che non stavamo più insieme, lei si è trasformata in un panda.

I suoi occhi sono diventati grandi, lucidi, colmi di lacrime. Le lacrime però erano decisamente troppe per i suoi occhi stretti. Quindi sono straripate. Un'inondazione. Che ha sommerso tutto. In particolare, il suo mascara nero, il suo eye-liner nero, la sua matita nera e il suo ombretto. Che non è nero, ma grigio scuro. In ogni caso, ho scoperto che l'ombretto color asfalto quando viene bagnato diventa simile a inchiostro.

Due enormi chiazze nere si sono allargate attorno agli occhi troppo aperti di Susanna. E la sua faccia è diventata come quella di quel grosso orso che passa le giornate a mangiare bambù e a fissare i turisti con aria tonta.

Mi immagino Susanna che si strafoga di bambù, in qualche remoto zoo cinese. E mi viene da ridere. So che non è una reazione appropriata, però Susanna-panda fa davvero ridere. Cerco di soffocare la risata con un colpo di tosse.

Ma lei se ne accorge.

─ Ti fa ridere? ─ strilla. E poi scoppia in singhiozzi.

La situazione sta precipitando.

È ora di darci un taglio.

Le poso un braccio intorno alle spalle e le sussurro all'orecchio: ─ Sono certo che, da qualche parte là fuori, c'è un ragazzo che non aspetta altro di essere amato da una stupenda creatura come te... Devi solo darti la possibilità di incontrarlo.

Lei si scosta bruscamente.

Si scaccia le lacrime dal viso con un gesto nervoso e poi mi lancia un'altra occhiata.

Questa volta, i suoi occhi azzurri sono lucidi, e pieni di odio.

Senza che io non abbia il tempo di fare altro, Susanna si volta e corre via, sparendo dietro un angolo del corridoio.

Sospiro.

Anche stavolta le cose non sono andate come dovevano. Avevo immaginato la conversazione tra me e Susanna in modo molto diverso. Ma, anche stavolta, le emozioni e i sentimenti (i suoi) si sono messi in mezzo.

Una voce sussurra al mio orecchio:

─ Là fuori, c'è un ragazzo che non aspetta altro di essere amato da una stupenda creatura come te...

Poi, una risata acuta. Sembra una gallina con l'ulcera.

Senza voltarmi, sospiro di nuovo e mi avvio lungo il corridoio: ─ Vincy, sei un idiota.

─ Oh. Mio. Dio. ─ continua lui, senza ascoltarmi. ─ È stato fantastico, giuro. Degno di un episodio di Violetta. Hai mai pensato di fare lo sceneggiatore per la TV. Ma solo per programmi trash, ovvio!

Sbuffo.

─ Hai ragione. Non credo che tu possa avere un futuro. Manchi totalmente di empatia. ─ Non smette di parlare, mentre mi segue verso la palestra della scuola. ─ Questa cosa io comunque proprio non la capisco. Ho appena assistito (non senza una certa goduria, Susanna è un'insopportabile spocchiosa) a un'esibizione di pura mancanza di emozioni.

La campanella interrompe per un attimo il flusso della sua diarrea verbale. Vincy è così da quando lo conosco, cioè praticamente da sempre: ha la costante e irresistibile necessità di commentare qualsiasi cosa. E, normalmente, i suoi commenti sono quasi sempre inappropriati.

─ Mi viene un dubbio. ─ prosegue, non appena lo stridio della campanella che segna la fine dell'intervallo si smorza. ─ Hai un cuore che batte come quello di noialtri poveri mortali, o sei una divinità incapace di provare compassione?

Sollevo un sopracciglio e sorrido: ─ La seconda, non l'hai ancora capito?

Vincy entra trionfante negli spogliatoi e alza le mani al cielo.

─ Signore e signori, il ragazzo che non può provare dolore. Ecco a voi Edoardo Marconi!


Si chiama CIPA. Sta per "Insensibilità congenita al dolore". Ce l'ho dalla nascita, ovviamente.

È una di quelle rarissime malattie genetiche, che colpiscono una persona su non so quante migliaia. E io sono stato il fortunato.

In realtà, non è una malattia come le altre. Cioè, il mio corpo è perfettamente normale, io posso fare tutto, come gli altri. Solo che non posso sentire dolore fisico.

Se prendo un pugno in faccia, sanguino come tutti. Ma non sento nulla.

Faccio indigestione, ma non ho mai avuto mal di pancia. Quando vado dal dentista, non ho bisogno dell'anestesia. Se mi chiudo il mignolo in una porta, quello diventa gonfio, ma io nemmeno me ne accorgo.

I miei genitori non l'hanno capito subito.

All'inizio, pensavano solo che fossi un bambino un po' strano.

Quando sono nato, non ho pianto come tutti gli altri neonati. Mi hanno detto che ho aperto gli occhi, ho fissato la mamma e ho pronunciato una specie di: ─ Ugh!

Tutto lì.

Niente pianti isterici, niente notti in bianco.

Mentre crescevo, non piangevo mai quando cadevo o sbattevo la testa contro lo spigolo di un mobile.

Mamma e papà erano molto orgogliosi di me, e mi esibivano ai loro amici come se fossi un bambino prodigio. In effetti, al confronto degli altri bambini, lamentosi e sempre con la lacrima pronta, io ero una specie di Buddha imperturbabile.

Poi, però, ci fu l'incidente della pentola.

Avevo cinque anni e infilai la mano in una pentola di acqua bollente, per recuperare un cucchiaio che era scivolato dentro.

Quando estrassi la mano, la mia pelle aveva un aspetto decisamente poco piacevole: gonfia, rossa e piena di bolle. Insomma, un'ustione in piena regola.

Mamma scoppiò a piangere e mio padre si mise a urlare.

Io, invece, li guardavo ed ero tranquillo come se stessi acchiappando delle farfalle in giardino.

Ci vollero diversi mesi e centinaia di specialisti per avere una diagnosi.

Peccato che di terapia non c'era nemmeno l'ombra. Una malattia troppo rara, dissero i medici.

Quindi, ci rimandarono a casa, con qualche consiglio e nessuna soluzione.

Da allora, io sono Edoardo Marconi, il ragazzo che non può provare dolore.





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