Silenzio

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Silenzio.

Un silenzio assordante.
Un silenzio che riempie la casa e non ti lascia dormire.
Un silenzio che entra nelle vene, oltrepassa le arterie, e arriva al cuore.
Un silenzio che amplifica il rumore dei miei pensieri e il ticchettio dell'orologio.
Vorrei urlare, ballare, cantare, fare un gran chiasso. Invece ogni notte inciampo sul filo ingarbugliato dei miei pensieri che anche questa volta cercherò -inutilmente- di snodare.
Continuo a chiedermi chi lo ha lasciato. Come se frugando nella mia testa possa trovare il proprietario di tale silenzio e restituirglielo. Questa rumorosa quiete non la voglio, non mi appartiene, io bramo i tuoni e i fulmini, l'ira e le risa.
Forse è stata la mia prima storia d'amore finita male. Perché è così che ci lasciammo: in silenzio. Neanche le parole più atroci avrebbero fatto meno male di quell'insopportabile niente. Avrei preferito che mi urlasse che non mi amava più, avrei preferito una rottura rumorosa, come quelle che fanno svegliare i vicini di casa la notte. E Invece no, non c'erano parole, c'era solo l'attesa di una chiamata che non arrivava mai. Ogni volta che lo schermo del telefono si illuminava, una parte di me sperava che fosse lui a scrivermi. Sì, forse è stato lui. Lui che non ebbe mai il coraggio di lasciarmi, di inventarsi una scusa o addirittura dirmi la verità. Così, semplicemente, si allontanò sempre di più, fino a sparire. Fu come se ci fossimo persi nella nebbia, come se ad un certo punto mi avesse lasciato la mano ma non avessimo urlato i nostri nomi per ritrovarci. In quella nebbia fatta di supposizioni, di motivi probabili della rottura, di insicurezze e paure, fu difficile persino trovarmi.

Forse l'ho portato io, quando da ragazzina iniziai a chiudermi in me stessa. Quando iniziai a parlare meno e scrivere di più. Usavo la penna come una sorta di proiezione. Come se trasferissi i miei pensieri ed emozioni sulla carta e in questo modo mi alleggerissi la mente. Quando scrivevo mi sembrava di mettere in ordine i miei pensieri, come se riuscissi a snodarli, come se cominciassero ad avere un filo logico. Era una sorta di atto di liberazione, di catarsi.
Le parole scritte mi sembravano più vere, concrete, come se potessi toccarle. Nella scrittura esse non sono buttate al vento, sono lì, rimangono, in attesa che qualcuno le legga. Invece quando parlavo avevo sempre la sensazione di non essere ascoltata, oppure non usavo le parole giuste, non riuscivo a farmi capire e tra una parola e l'altra ci mettevo un fastidioso e poco musicale "ehm". Lo detestavo, mi faceva apparire goffa e poco sicura di me. Quando scrivevo tutto questo spariva, mi sembrava di avere il controllo sul mio mondo. Nelle mie storie l'artefice ero io, a scegliere il destino dei miei personaggi ero io, stava a me la conclusione, la parola fine. Nelle mie storie potevo essere qualcun altro, essere in un posto completamente diverso da quella in cui vivevo. Sulla carta ero libera.
Nonostante ciò, la scrittura mi allontanava dal mondo reale, dalle relazioni sociali e dai miei cari. Perché nonostante scrivessi sempre di qualcuno, che fosse un ragazzo che mi piaceva oppure un mio familiare, a leggere quei testi ero soltanto io. In fondo c'è egoismo anche in questo, anche nell'atto più puro che conosca: nella scrittura. Non ho mai concesso a nessuno di entrare nel mio piccolo mondo, mi ci barricavo dentro, vivevo delle storie che mi raccontavo. Finché ad un certo punto non mi guardai attorno e vidi il muro di parole che avevo costruito, che separava la mia mente da quelli degli altri. C'ero solo io e il rumore frastornante delle parole mai dette e di quelle mai state lette.

O forse ce lo ha portato mio padre. Lui, con le sue mani grandi, sporche di lavoro e gli occhi pieni di stanchezza. Lui con i mille problemi da risolvere e le commissioni da sbrigare. Con la sveglia alle sei del mattino e il rientro alle sette di sera. Con i film che non è mai riuscito a finire perché si addormentava sempre a metà. Forse lo ha portato lui.
Lui, che con i suoi silenzi riusciva a farsi capire, le parole non gli sono mai piaciute. Quante volte mi è sembrato di sentire un "ti voglio bene" tra i suoi infiniti silenzi.
Ma forse ha ragione mio padre, dirsi le cose è innaturale. La comunicazione verbale è innaturale. Gli umani se ne vantano tanto, è ciò che ci distingue dagli animali dicono. Invece a volte sembra quasi che questo modo complesso che abbiamo inventato per dirci le cose, sia un ennesimo modo di mettere delle barriere, di separarci.
Non ho mai avuto il bisogno di chiedere a mio padre come stava, glielo leggevo in faccia. È sempre stato semplice codificarlo, i suoi occhi neri hanno sempre parlato al posto suo. Quando gli chiedevo esplicitamente come stava, a volte non mi rispondeva neanche, semplicemente piangeva. Non si è mai vergognato di piangere. Quando era triste o arrabbiato gli tremava il mento e le lacrime scivolavano giù, senza fare rumore alcuno. E di riflesso ho sempre pianto anch'io insieme a lui. Io sapevo sempre cosa stesse provando, era come se sapessi il significato di quelle lacrime, come se fossi dentro di lui, come se fossi lui. Davanti a tutto questo le parole sono sempre state superflue.
Quando invece era preoccupato o innervosito, muoveva ritmicamente la mandibola guardando in un punto fisso. Quando era felice, invece, era semplice capirlo, la gioia è l'emozione più difficile da nascondere. Quando era felice iniziava a bere, a ridere, e a cantare. Le sue guance diventavano completamente rosse. Mia madre lo ha sempre rimproverato perché ci metteva in imbarazzo, perché iniziava a baciarla davanti a tutti. E poi iniziava a parlarci della guerra civile, di quando faceva il militare. Iniziava a ridere in modo goffo per interi minuti, finché non iniziava a lacrimare. Quando si è felici non c'è spazio per il silenzio. La felicità cancella tutto, persino i pensieri. Della felicità è difficile persino scriverci, stai là a fissare il foglio vuoto perché non hai nulla da dire. Come la descrivi? Come si fa a raccontare la felicità a qualcuno? Non puoi, la vivi e ti dimentichi del resto, ti dimentichi di ogni ferita passata, di ogni rimpianto, di ogni amore finito male. Quando si è contenti, quello che c'era prima e quello che ci sarà dopo semplicemente non esiste. Ci sei solo tu e le persone intorno a te, in quel dato momento, uniti da una risata o una canzone.
Le emozioni mi hanno sempre affascinata perché le proviamo e le esprimiamo tutti allo stesso modo. Sono universalmente riconoscibili, non ci sono lingue o culture diverse quando si tratta di emozioni. Esse ci uniscono, è la forma più semplice e pura di comunicare.

Forse non è colpa di nessuno per il silenzio che mi circonda. Non ha una causa e tanto meno un nome. Forse è solo che non sono felice da un po'. Non ho nessun motivo per essere particolarmente triste, ma nemmeno per essere particolarmente felice. Sto bene, credo, ma non abbastanza. Manca qualcosa che mi faccia spegnere la mente, qualcosa che non mi faccia pensare. Ogni volta che qualcosa di meraviglioso mi accade, la rielaboro così tante volte fino a trovarci un difetto. Preferisco autosabotarmi che ricevere una delusione da qualcun altro. E se poi alla felicità mi abituassi? Come potrei poi tornare alla realtà? Meglio la routine e questi sentimenti tiepidi. Meglio questo fastidioso equilibrio. Meglio il silenzio.
Devo imparare ad essere felice, a saltare sul filo dei pensieri invece di inciamparci, a danzare sul ticchettio dell'orologio, a sostituire il silenzio con la musica, a farmi leggere, a costruire dei ponti, a baciare in pubblico, a dimenticare, a non pensare. Forse così il silenzio smetterà di essermi nemico.

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