La Signora di D.

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Ricordo il cielo, le nuvole scure cariche di pioggia che offuscavano la luce delle stelle di quella nefasta notte.

Ricordo di aver scorto la luna, dietro a quelle nuvole, e un lampo mi ha colpita, trapassandomi il corpo con una forza che io non avevo mai sentito.

Ricordo il suono delle onde.

Lieto, silenzioso, lento. Una ninna nanna nella mia agonia, una canzone che temevo ed amavo al tempo stesso. Scrosciante, melodioso, lontano. Avevo paura delle sue acque fredde, e al tempo stesso sapevo che sarebbero state le uniche a salvarmi. Il loro abbraccio mi avrebbe protetta, accolta, rassicurata. Avrebbe asciugato le lacrime che mi solcavano il viso, che mi mozzavano il fiato nella sorpresa di trovarmi sospesa nel vuoto, così, come una libellula.

Da bambina giocavo sempre a rincorrerle, nel cortile del palazzo di mio padre. Le inseguivo fino a perdere tutto il fiato che avevo nei polmoni, allungavo le mani nella speranza di riuscire ad afferrarle, saltavo sui ciottoli del sentiero paludoso nel tentativo di riuscire a volare come loro, e seguivo le loro ali frivole e vibranti con gli occhi, così rapita dai loro movimenti rapidi da finire spesso a gambe all'aria nell'acqua dello stagno. Mi sporcavo sempre il vestitino bianco, quello che a Lucilla, la balia, piaceva da impazzire. Mi rimproverava ogni santa volta, ripetendo sempre le stesse parole:

«Una brava ragazza non salta nelle pozzanghere!»

Lo stagno del palazzo non era una pozzanghera, ma nonostante io lo ribadissi di continuo, Lucilla non mi ascoltava mai. E io non ascoltavo lei. Sembravo avere un'ottusa ossessione malevola nei confronti di quell'abitino bianco. Non importava che Lucilla, mia madre o mio padre mi dicessero quanto mi donava, mi dava fastidio. Le sue balze, i suoi velluti, le sue rifiniture dorate in seta grezza, tutto mi faceva imbestialire. Odiavo quel vestitino più di qualsiasi altra cosa. E allora lo sporcavo. Inconsciamente, lo facevo anche apposta.

Io odiavo il bianco.
È una delle poche cose che ricordo chiaramente.

Eppure, più crescevo e più mi venivano confezionati abiti bianchi. Bianchi come la neve, come la crema, come le rocce che si affacciavano sul mare di un castello - un castello che, in seguito, avrei conosciuto molto bene. Arroccato su una scogliera a strapiombo, scintillava di imperiosa maestosità, e sembrava fissare le acque del mare con precauzione, come se temesse di precipitarvi dentro da un momento all'altro. Era circondato dalla più verdeggiante vegetazione, da grandi pini marittimi e tremule primule giallastre attorno alle quali si rifugiavano falchi e gabbiani, che si scambiavano occhiate torve da lontano. Sulle torri, invece, regnavano sovrani cinque corvi, così grossi e neri da sembrare cani con le ali. Lucilla li aveva subito visti come uccellacci del malaugurio, e aveva pregato in tutti modi la servitù del castello di allontanarli. Ma loro, con occhi smorti e vuoti, l'avevano osservata silenziosi, e avevano ignorato la sua richiesta come se si fosse trattato di quella di una pazza. Lucilla aveva deciso che non avrebbe più messo piede in quel luogo. E aveva mantenuto la sua parola.

Io, invece, ne ero padrona e prigioniera.

Avevo a malapena sedici anni quando venni introdotta al signore di D., un uomo di piacevole aspetto, molto più grande di me, dai modi cordiali e dalla lingua gentile. Non lo avevo mai sentito imprecare, inveire o rivolgersi in malo modo ad un membro della sua stessa servitù, né lo avevo visto maltrattare qualcuno. Avevamo una grande differenza d'età, ma le nostri menti erano affini. Apprezzavamo la musica, il canto, la lettura, condividevamo gli stessi gusti, amavamo passare le giornate all'aperto, e cavalcare era la nostra passione più viscerale. Imparai ad amarlo in pochi giorni. Mi fu facile.
E quando cominciai, non riuscii più a smettere.
Mi mandava doni, abiti ricchi e scintillanti diamanti, mi scriveva lettere imbevute di amore e desiderio che io corrispondevo, a cui rispondevo con minuziosa puntualità, terrorizzata all'idea che potesse ben presto stufarsi di me ed invaghirsi di una donna più grande, più bella, e più esperta di me.
Mi viziava dedicandomi i suoi pensieri, mi raccontava brillanti avventure di cavalieri ed esseri magici del folklore della sua terra, mi coccolava con i suoi occhi bruni, e mi tormentava il sonno con la presenza fantasma delle sue labbra sulle mie. Provavo per lui ciò che mai avevo provato prima, quel flebile tremore che mi coglieva quando allungava una mano nella mia direzione, quel furioso calore che mi tingeva le guance quando i nostri sguardi si incontravano, quella violenta tensione che mi sconquassava le membra ogni qual volta lui ed io restavamo soli nella stanza. Quando mi baciò, pensai di non avere più alcun senso senza di lui.
Quando mi chiese in sposa, accettai senza la minima esitazione.

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