Suicidio di uno Scrittore Fallito - Parte I

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Lei dipingeva e io scrivevo, non sapevamo fare nient'altro - ad eccezione di scopare, e forse il sesso era la forma d'arte che ci riusciva meglio. Gli orgasmi erano fremiti di estasi trascendentale che rendevano la vita sopportabile e mi distraevano da costanti pensieri suicidi. Probabilmente, se non ci fosse stata Scarlett mi sarei tagliato le vene nella vasca da bagno da un pezzo.

Una di quelle notti, nel bel mezzo della depressione post orgasmo, mi infilai i boxer e sedetti sul bordo del letto e imboccai una sigaretta. Di fronte alla finestra del nostro monolocale, un'insegna al neon rosso attaccata sopra la saracinesca di un piccolo cinema a luci rosse rimaneva accesa notte e giorno, giorno e notte, e rigettava il suo bagliore sanguineo nel nostro appartamento. Le tapparelle della nostra unica finestra erano andate, e noi fottuti, condannati a sorbirci ventiquattro ore di ombre rosse che rilucevano nell'appartamento.

C'era da impazzire.

«Spegni quella sigaretta, ti prego, o vai a fumare alla finestra», disse Scarlett. La sua voce era appesantita dal sonno, dal sesso e dalla canna fumata prima di farlo. All'inizio il fatto che trovasse ripugnante l'odore del tabacco e non quello della marijuana mi faceva sorridere, ora era diventato soltanto un'enorme rottura di palle.

«Sto uscendo. Non riesco a chiudere occhio a causa di questa cazzo di luce».

«Dove vai? Sono le due e qualcosa».

«Vado a scrivere».

«Sì, certo. Lo so che stai andando a bere».

Feci spallucce. «Hemingway ti direbbe che scrivere e bere whiskey sono la stessa cosa».

«Van Gogh invece direbbe che senza assenzio non c'è arte, ma ciò non vuol dire che per impugnare il pennello devo ubriacarmi».

«Forse è proprio per questo che i tuoi quadri non sono esposti al Louvre», la stuzzicai.

«O forse è proprio perché bevi che non hai vinto il Nobel per la letteratura».

«Quando lo vincerò smetterò di bere. Ma prima d'allora ho bisogno di... un aiuto da parte del pubblico, diciamo, per sopprimere l'irresistibile impulso di spompinare la canna di una pistola».

Scarlett mugolò qualcosa di incomprensibile e girò su sé stessa, il culo all'aria violentato dalle ombre rosse, il seno che sprofondava nel materasso sudicio di sperma e femminilità, le cosce dalla forma armoniosa e imperlate da una miriade di gocce di sudore, i capelli blu che scendevano lungo la flessuosità del suo lungo collo da cigno. Erotismo vivente allo stato brado.

Contemplavo quell'opera d'arte umana mentre mi godevo le ultime boccate di fumo. Spalancai la finestra e gettai la sigaretta ancora accesa in strada. Se avesse colpito qualcosa di infiammabile (forse, per qualche ragione sconosciuta, qualcuno aveva lasciato una tanica di benzina aperta sul ciglio della strada) e fosse scaturita un'esplosione, non avrei più dovuto sopportare quell'interminabile film dell'orrore a luci rosse.

Niente, nemmeno una scintilla, ero ancora vivo e integro.

Mi vestii con un paio di stracci, presi carta e penna e camminai per qualche isolato, finché non raggiunsi il solito bar. Il solito bar, le solite facce di merda, la solita birra sottomarca di merda. Il prezzo però la rendeva bevibile, o perlomeno ingurgitabile. D'altronde, quando si è sia scrittori che alcolizzati - un connubio che nella maggior parte dei casi portava alla follia o al cimitero - non ci si può permettere di essere schizzinosi. Era il prezzo da pagare per vivere nella miseria. Il buon vecchio Bukowski lo sapeva bene, oh sì.

«Il solito, Jim», dissi al barista, e mi ritrovai una Saverne sotto il naso. Era roba francese, un intruglio amaro che ti dava alla testa e i cui primi sorsi mi fecero rimpiangere di essere nato. Ma una volta arrivato a metà lattina il resto scendeva giù come acqua. Bastava soltanto superare la paura di buttarsi, poi tutto continuava in automatico, era come respirare.

E la fobia della pagina bianca tornava nel meandro infernale dal quale sbucava ogni qualvolta che impugnavo la penna.

Posai un blocchetto per gli appunti sul bancone e buttai giù qualche riga e qualche sorso, oltre a qualche tiro di Winston per togliere il saporaccio della birra dalla bocca.

A Dio non si alza più

Pioveva.

Le puttane fumavano davanti alle mura di Gerusalemme.

La più bella di loro chiese:

«Perché siamo Qui?»

«Non lo so», rispose la più brutta.

«Non voglio stare Qui. Voglio andarmene».

«Anch'io», si intromise Dio.

Lo ignorarono.

Continuava a piovere.

La mia carriera come scrittore stava andando a puttane: due romanzi pubblicati che vendevano meno dei cessi portatili, una raccolta di poesie che veniva acquistata come ripiego della carta igienica e una dozzina racconti pubblicati in una rivista underground che non veniva usata come coperta nemmeno dai senzatetto - i Times stropicciati erano più adatti a combattere le notti miti di L.A..

Tenevo accesa la fiamma che mi permetteva di tramutare il mio dolore esistenziale in parole e frasi che facevano vibrare l'anima del lettore di piacere a suon di bourbon del Wall-mart e birra rancida. Il mio medico mi avrebbe dato una botta in testa, ma il mio stesso comportamento autodistruttivo era la medicina che mi faceva campare, la benzina che impediva alla fiamma di spegnersi. Senza di essa sarei impazzito, o morto, oppure, ancora peggio, avrei cercato un lavoro in un supermercato o in un cantiere.

D'altronde la mia piccola crociata personale nel mondo letterario era arrivata ad un punto di non ritorno: mi ero lanciato nel vuoto senza paracadute e l'unica cosa che potevo fare era modificare la traiettoria della caduta e cercare di planare sopra gli oceani piuttosto che schiantarmi al suolo.

La birra era finita e l'alcol si stava fondendo col sangue. «Fammene un'altra, Jim».

«Bates, ma non ti stanchi mai?»

Mi concedetti una lunga sorsata, seguita da un rutto. «Generalmente sono stanco di tutto, ma presumo che ti stia riferendo a qualcosa di specifico».

«Di soffrire come un cane».

«La sofferenza è il motore universale che rilascia dai suoi tubi di scappamento il connubio perfetto tra arte e passione. Se non soffrissi, morirei di fame o farei il barista».

«E questo chi l'ha detto?»

«Un tizio che alla fine dei giochi si è bevuto un litro di candeggina per cena».

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