9. Il furto delle parabole

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Tomas Murphy.

Ventun anni. Occhi vispi, capelli castani, un sorriso sghembo sempre presente, altezza nella norma, un fisico atletico ma non molto definito.

Fu prelevato dalla sua famiglia a sette anni, un po' tardi per l'Accademia. Era stato segnalato più volte da diversi insegnanti dell'arca.

Aveva talento.

Murphy, un cognome molto comune nel vecchio mondo. Non sull'arca.

La sua famiglia era decaduta anni prima. Il suo avo aveva imbarcato la moglie e due gemelli in quanto secondo ingegnere. Nessuno sapeva che i due gemelli non erano davvero i figli di Conrad e Meredith Murphy, erano i loro nipotini. Loro non avevano potuto averne, di figli. Conrad era sterile. Ma quei biglietti gratuiti erano una speranza di vita a cui nessuno poteva rinunciare, nemmeno due genitori che avevano appena messo al mondo due bambini, entrambi con gli arti inferiori atrofizzati, tra mille lacrime e infinito dolore. La loro mamma sarebbe morta di parto poco tempo dopo. Nemmeno il titanio riuscì a tenerla in vita. Questo segreto, Conrad e Meredith se lo sarebbero portati per sempre nella tomba.

Sull'arca i piccoli Stephen e Simon costruirono una casata. Entrambi ingegneri, come il presunto padre, furono citati nei libri di storia del K-030.

Ebbero diversi nipoti, che a loro volta proliferarono fino a Tomas, ultimo erede. Quando ormai dei Murphy non rimaneva quasi nulla, solo un padre alcolizzato e la sempre più prossima possibilità di essere retrocessi ai piani bassi, accadde l'irreparabile.

Tomas avrebbe potuto salvare il nome della famiglia. Divenire anche lui ingegnere e riportare così la sua casata all'antico e perduto splendore.

Ma l'Accademia lo volle con sé.

L'Accademia sceglieva i bambini secondo rigidi e precisi criteri: salute, forza e intelletto.

Pochi superavano la durissima selezione.

Se ciò fosse avvenuto, avrebbero perso il loro cognome.

Perdere il proprio cognome all'età di sette anni non è facile.

Tom ricordava l'odore di whiskey scadente del padre, le sue camicie a quadri rossi e verdi, la sua barba incolta, il modo buffo in cui faceva i panini, a tre strati invece che due. "Mangia che cresci" borbottava mentre gli porgeva il pranzo. Ricordava i suoi occhi acquosi quando l'aveva salutato l'ultima volta. "Comportati da uomo". Ma cosa voleva dire? Come si dovrebbe comportare un uomo, si chiese Tomas, mentre guardava il padre commuoversi girato di spalle, la schiena che sobbalzava, la faccia tra le mani.

L'Accademia era divisa in tre settori, a cui si veniva destinati dopo gli undici anni: c'erano i soldati, in cui rientravano Shani e Ulrik, i piloti, classe a cui apparteneva Kuran, e l'intelligence, l'ultimo gruppo, di cui faceva parte Hans.

Tomas era un ragazzo sveglio, dicevano i suoi insegnanti, creativo, coraggioso, pieno di inventiva, con uno spiccato senso dell'umorismo. Era solo furbo, ribattevano altri, molto furbo.

Troppo debole per appartenere ai soldati, troppo iperattivo per far parte dei piloti, non abbastanza cognitivamente dotato per far parte dei professori. L'Accademia era in difficoltà, aveva attuato una misura estrema e complessa per adottare quel ragazzo e ora non sapeva che farsene. Questo tipo di problemi portava a delle magagne burocratiche non facili da comprendere. L'Accademia doveva avere sempre ragione, mantenere un profilo alto, impeccabile. Non poteva ammettere di avere sbagliato.

Era più che evidente che Tomas avesse del talento.

I suoi voti erano buoni, era resistente nella corsa e promettente nel tiro al bersaglio, non sarebbe mai stato un efficiente pilota ma aveva una capacità assurda nello smontare e rimontare apparecchiature complesse. Non spiccava in nessun settore ma si faceva valere. Era scaltro. Sapeva vendersi, sapeva competere con i compagni, difficilmente ne usciva sconfitto, anche contro chi era più dotato di lui.

UMANA ∽ Ritorno sulla TerraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora