Il vento dell'Ovest, Zefiro, soffiava dolcemente lungo tutta la catena dell'Ida, rinfrescava i campi e muoveva con la sua lieve forza le acque dello Scamandro e del Simoenta. Il fruscio delle foglie si sentiva appena, e il muschio accarezzava i piedi di Creusa, persa nel suo sonno. Si destò per il formicolio, e una volta aperte le palpebre notò di aver dormito col capo sul petto di Enea, su cui ancora vegliava un dolce sopore. Sollevò la testa per osservare e magari tenere a mente l'espressione tenera e tranquilla che aleggiava sul suo volto, le labbra lievemente incurvate in qualcosa che somigliava a un vago sorriso. Sorrise anche lei: la sera precedente, per quanto clandestina, per quanto più conforme a umili amanti che a nobili del loro rango, sarebbe stata per sempre custodita nello scrigno dei bei ricordi e della memoria. Anime unite tra loro e alienate per qualche momento dal mondo, semplicemente obbligate a essere chi erano, e non apparire come dovevano. Aveva sempre considerato l'unione fisica come un mistero da svelare solo una volta coniugi: eppure, in quel momento, realizzò che i loro sentimenti nobilitavano tutto ciò che avevano compiuto, e che non si trattava di misero appagamento. Sperò che quello fosse rimasto un loro segreto, e che nessuno avrebbe mai scoperto ciò che solo le pareti di quella grotta avrebbero potuto testimoniare.
Il sereno ronzare delle api, poco distante dal luogo in cui si trovavano, creava come una sinfonia piacevole e rilassante, che permise a entrambi, chi dormiente e chi no, di distendere ogni muscolo del proprio corpo, rendendolo un tutt'uno con l'ambiente circostante. Anche Enea, udita allora la melodia, si fece forza e aprì gli occhi: era come mosso da uno spirito coraggioso e avventuriero, capace di metterlo in guardia da cattivi risvegli. Credeva, infatti, di aver vissuto momenti talmente belli da poterli considerare dei sogni, per poi ritrovarsi con una realtà cruda che lo avrebbe riportato nel suo letto, a Dardano, e non lì accanto alla sua Creusa. Dovette però tirare un sospiro di sollievo, quando se la ritrovò dinnanzi a sé: gli occhi cerulei lo fissavano con dolcezza, nutriti di un intenso desiderio di incontrare il suo sguardo... E quando accadde... entrambi parevano avere nelle loro iridi il riflesso del cielo, o di qualcosa – non avrebbero saputo definire cosa – che somigliava alla perfezione.
«Creusa,» sussurrò per primo, «da quand'è che mi attendi?»
«Non molto, a dire la verità... le api e la brezza hanno destato me così come poco dopo hanno fatto con te... e non poteva...»
«Essere risveglio migliore,» la precedette Enea, che come la sera precedente, senza rendersene conto, sussurrava ad alta voce le frasi dell'altra, ed ella era come sicura che le completasse.
«Sì... è proprio così,» concordò infatti, senza aggiungere altro, e si limitò ad accoccolarsi sul suo petto e ad abbracciarlo convulsamente.
Era un intreccio diverso rispetto a quello sperimentato la sera precedente, poiché, come per il bacio all'interno del tempio, pieno di foga, testimoniava il desiderio di volersi unire all'altro come un Ermafrodito, qualcuno che restasse indivisibile nei rapporti tra le loro anime.
Invece, al contrario, quando si erano addormentati si erano fermati al semplice e quasi casto – nonostante le nudità scoperte – delibarsi.
In ogni caso, entrambi sapevano per certo che era condiviso il desiderio di non voler muoversi, e interrompere quella piccola sfaccettatura celestiale che poteva essere paragonata alla tessera più bella e luminosa, seppur ridotta, di un mosaico.
«Il sole starà per percorrere la volta celeste, forse è meglio se ce ne andiamo,» constatò Enea con voce roca, quasi dispiaciuta.
«In questo momento detesto darti ragione, ma è proprio così: se scoprono quel che abbiamo fatto ci ammazzano», confessò lei, alzando la schiena dal suolo tappezzato da molteplici sassolini.
Controvoglia si rivestirono, egli del chitone e l'altra della tunica e del peplo fiammeggiante, poi varcarono la soglia della caverna e notarono Ete che manducava un po' di erbetta, probabilmente sveglia da un pezzo. Enea le carezzò la criniera, aiutando Creusa a salirvi in groppa, dopodiché fece lo stesso anche lui, e partirono alla volta di Troia. Per loro fortuna, non trovarono nessuno all'interno delle scuderie di Priamo – sarebbe stato un grosso problema, a cui porre rimedio era pressocché impossibile – e posizionarono Ete all'interno della sua, con altre giumente simili a lei. I corsieri come Xanto, invece, si trovavano sul lato opposto, e già si nutrivano del loro fieno, pronti ad affrontare, assieme ai Priamidi, gli allenamenti che li avrebbero aspettati.
I due amanti camminarono per un passaggio segreto, o comunque ben nascosto, che conoscevano all'interno della reggia; infine, una volta che la fanciulla fu scortata all'ingresso della sua stanza, amaramente dovettero salutarsi.
«Quando ci rivedremo, Enea?» domandò allora Creusa, che si ritrasse a malapena nell'ombra della sua camera.
«Quando vorranno gli dèi, Creusa: forse tra un giorno, forse tra anni. Se desideri una risposta più realistica, allora credo che non sarà prima del matrimonio», dichiarò, passando un'ultima volta la sua mano sugli zigomi della fanciulla.
«E andremo a vivere a Dardano?» chiese ancora, racchiudendo in quelle domande la curiosità di una bambina.
«Certo che ci andremo, e in un palazzo tutto nostro: sinceramente, non vedo l'ora che accada... ma ora è meglio che vada, altrimenti chi la sente Caieta», riferì il giovane, sporgendosi per darle un ultimo bacio sulla fronte e poi voltarle le spalle, camminando silenziosamente per la reggia di Priamo, e andandosene da dove era entrato.
Creusa trattenne un sorriso, dopodiché si stese sul letto e tentò invano di dormire, tenendo le mani congiunte sul ventre e rotolandosi fra le lenzuola di lino fresco, abbracciandole talvolta. Forse per ricreare gli abbracci della sera precedente, forse per percepirli ancora come una parte di sé prima di ritornare al mondo reale, quello in cui, anche se ancora per poco, l'aspettavano suo padre e sua madre.
«Euridice, che fai, dormi? Ti avverto che devi andare, tuo padre ti chiama!» esclamò improvvisamente la nutrice Beroe, che interruppe la principessa e la destò da quel mondo onirico e fumoso, poco chiaro ai bulbi oculari ma nitido agli occhi dell'anima.
«Arrivo!» urlò svogliatamente dal suo giaciglio, emettendo un sonoro sbadiglio. Poi si alzò e si stiracchiò all'indietro, visibilmente esausta e morta dal sonno. La colazione era un pasto che le donne come lei consumavano separatamente dagli uomini, in tavoli ben distinti: se Priamo presenziava in compagnia di Ettore e gli altri, a lei invece era toccata la sorte – indubbiamente migliore – di stare con Ecuba. Di solito, tra fratelli, erano soliti lanciarsi lunghe occhiatacce e frecciatine, per poi bisticciare lungo i corridoi e iniziare in tumulto la loro giornata. Non erano nuovi alle offese che Deifobo recava a Laodice, né che lei lo inseguisse infuriata per la reggia. Tuttavia, nell'ultimo periodo, le acque parevano più calme, e la situazione non più infantile come un tempo.
Mentre infilava i sandali e si preparava per raggiungere gli altri, ecco che Ettore, mattiniero come sempre, era già sveglio e pronto ad affrontare la propria giornata, gironzolando per i corridoi in cui si trovavano le camere delle sue sorelle.
Il gineceo era la zona più rumorosa dell'intera casa: la natura femminile era sempre stata molto civettuola, dunque le notizie che le donne comunicavano tra di loro erano sempre ricche di dettagli che a un uomo avrebbero decisamente annoiato. Lì filavano, lì si esercitavano nel canto, facevano il pane, si abituavano alla futura vita coniugale o, se già sposate, coordinavano e talvolta deridevano il lavoro delle nubili. Creusa aveva sopportato per due lunghi anni gli sguardi scherzosamente malevoli della zia Teano e di sua cognata Andromaca, che spesso giudicavano i suoi arazzi come semplici ed elementari. Aveva sempre imparato a rispondervi in maniera sarcastica, ma doveva ammettere che non si capacitava del fatto che sapeva cacciare e andare a cavallo e non occuparsi di stupidi capi d'abbigliamento. Euridice, nonostante suo padre male l'adocchiasse per quello, era propensa a una vita più frugale, come quella dardanide, e a un rapporto minimale con l'esistenza. Non erano nuovi al suo saper coordinare i lavori altrui e alle storie che raccontava sin da quando era adolescente, e che di adolescenti ne aveva fatti sognare tanti, forse nella speranza di emulare le imprese degli eroi su cui si concentrava. Ed era come se sapesse, in un modo o nell'altro, che anche Enea, che anche Ettore – che si ritrovò di fronte una volta varcata la soglia della stanza – avrebbero raggiunto la fama stellare dei personaggi di cui parlava.
«Ettore, mi hai spaventata!» esclamò, non appena lo vide, «Non dovresti essere in questa zona della reggia, bensì di sotto con tutti gli altri.»
«Anche tu, e poi ti devo parlare,» rispose costui a tono, irrigidendo lo sguardo più di quanto lei si aspettasse.
«Beh, io non passo per le stanze degli uomini se non è necessario, in primo luogo. In secondo luogo dimmi, ti ascolto» disse lei, fulminandolo con lo sguardo più di quanto già egli stesse facendo.
«Non mi piace che usi questo tono con me, sorella; tuttavia, non desidero né discutere né comportarmi da infante. Per cui te lo chiederò una sola volta, e gradirei che la tua risposta sia plausibile e credibile: cosa ci faceva, Enea, qui, ieri sera?»
Il principe troiano racchiudeva nel suo tono di voce una nota severa, forse aspra, arrabbiata: come se qualcuno lo avesse tradito o mancato di rispetto, come se ricoprisse il ruolo di un giudice infernale e dovesse essere incredibilmente selettivo nello svolgerlo.
«Cosa stai insinuando, Ettore?» non avrebbe saputo né mentirgli né negare, dunque preferì tirare alla lunga per distoglierlo dall'obiettivo e concentrarsi sulle intenzioni.
«Puoi ingannare tutti, ma non me...» sussurrò suo fratello, schioccando la lingua, «quando ho portato Elimo ebbro al carro, Enea non c'era. Era con me poco prima, ma nel conversare con suo fratello l'ho perso di vista. Ho pensato che si fosse diretto lì in precedenza, ma quando stamattina ho incontrato Acate e mi ha detto di non averlo visto rientrare, allora l'ultima possibilità era che fosse venuto qui, e che avesse...»
«Che avesse?» Creusa, nonostante fosse certa del prosieguo di quella frase, ripropose la domanda nella speranza di riuscire a intrattenerlo.
«Ti prego di non farmelo dire», Ettore, più infuriato che mai, digrignò i denti e le strinse i polsi, tanto ch'ella subito provò un dolore immane, «perché se così è stato, sappi che lo uccido, quel bastardo.»
«Non dire cose di cui potresti pentirti, ὦ ἀδελφέ*[1], dato che anche tu hai fatto la stessa identica cosa. Non te le ricordi le lacrime di Andromaca quando la rapisti da Tebe Ipoplacia e attentasti per primo alla sua virtù?»
Le rimembranze di quel passato a cui Ettore non più si sentiva appartenente risvegliarono in lui come una sorta di rabbia, forse più rivolta a se stesso che a lei. Caricò nel braccio tutta la forza che aveva, e non esitò a porgerle un enorme schiaffo sulla guancia, per poi afferrarle il collo e inchiodarla contro il muro. «Non provare più a mancarmi di rispetto, piccola insolente,» la minacciò, «che è un miracolo se stavolta la passi buona. La prossima, qualora dovesse esserci, potrebbe non giovarti. E ora va' di sotto con tutte le altre, ch'io ti raggiungo tra poco. Ho delle faccende da sbrigare con i nostri cugini, prima.»
Creusa, le guance arrossate per la forte stretta a cui la stava sottoponendo il fratello maggiore, fece notare con respiri smorzati di star soffocando. Ettore esitò un momento prima di lasciarla libera, intensificando il suo sguardo come se, a poco a poco, le vene trasportassero rabbia all'interno dei bulbi oculari. Dopodiché allentò la presa, e lei respirò affannosamente, ringraziandolo per averlo fatto. Non ebbe il tempo di chiedergli perdono per le parole pronunciate poc'anzi, che già il Priamide le aveva voltato le spalle, dopo aver incrociato le braccia al petto e tenuto sul volto un'espressione meditabonda e riflessiva, intenta nella ricerca della calma che aveva appena perduto.
Creusa, dopo essersi ricomposta, udì immediatamente le voci dei suoi fratelli, Antifo e Ipponoo, espandersi per tutta l'area del cortile; si avvicinò alla ringhiera che dava all'interno di esso, che profumava della lussureggiante e rigogliosa vegetazione, e li vide correre avanti e indietro. Poi si stese su un'impalcatura, facendo attenzione a non cadere giù. Adesso, dopo le aspre parole di Ettore, sentiva lontana la gioventù, una rondine troppo libera per aver lasciato il nido troppo presto. Quando spostava lo sguardo verso i suoi fratelli, capiva quanto tempo fosse passato da che era un'infante come loro: caratterizzata dagli stessi sogni di gloria, le stesse ambizioni, quel poco essere coi piedi per terra che era parte di tutti i bambini... una condizione esistenziale che con l'avvento dell'età adulta era necessario si tramutasse in qualcosa di più pieno e concreto, che si liberasse da quel mondo cristallizzato e allo stesso tempo immenso ed esclusivo.
Fu riportata alla realtà quando si sentì chiamata dalla balia, che ripeté: «Euridice, Euridice!» fino allo sfinimento. La fanciulla, pronunciando un frettoloso: «Sto arrivando», scese lentamente dall'impalcatura e iniziò a correre dalle altre sorelle che si erano già accalcate per raggiungere il re e la regina. Riuscì a adocchiare di sfuggita Cassandra che conversava con Laodice e Polissena, mentre, dall'altro lato, le figlie illegittime che trovavano ristoro alla stessa mensa giungevano dalle loro stanze. Era un flusso continuo di ragazze e ragazzi che abitavano con i rispettivi consorti alla reggia di Priamo: ed egli, che quando voleva sapeva essere paterno, li trattava alla stregua di figli e figlie, tutti quanti. Si chiese se con Enea sarebbe stato così, se anche egli, un giorno, avrebbe trovato in quella reggia la calda accoglienza che meritava. Tuttavia, ne dubitava amaramente: conosceva i pensieri di suo padre, e aveva capito da tempo che vedeva i dardanidi solo come una popolazione obbligata a servire ed essere alleata della città di Troia. Per quanto aveva visto, il sovrano non aveva mai espresso stima nei loro confronti, nonostante le loro abili capacità militari e strategiche. Creusa presumeva che sotto vi fosse qualcosa, qualcosa che affondava le radici molto tempo prima, quando Dardano e Troia erano città unite e indissolubili. Forse la rivalità di due uomini che era stata preservata per anni, e che persisteva ancora nell'animo del monarca.
Nel momento in cui, una volta dentro, vide Ettore e Andromaca alle loro postazioni, il cuore le si fece pesante come un macigno nel petto: sperò che il fratello non avesse cambiato idea nei riguardi della situazione spiacevole che si era verificata poco prima, altrimenti per lei sarebbe stata la fine. Cosa avrebbe pensato la città? Per quanti campi di Troade e del territorio frigio avrebbero bisbigliato con tanta cattiveria che la magnanima Euridice, figlia dei sovrani di Ilio, si era unita in amplesso nei boschi selvaggi con suo cugino prima del matrimonio? Cosa avrebbero pensato il nobile padre e la madre? Quanta vergogna sul casato? E Anchise, suo zio amatissimo, che avrebbe detto a riguardo, di lei e di suo figlio? Tuttavia, quei dubbi tormentosi non fecero che riempirle la testa come mai prima di allora, ed erano infondati se avesse saputo prima ciò che Ecuba, sua madre, stava per rimproverarle: uno stupido ritardo che fu accolto con un sospiro di sollievo e un sorriso dalla fanciulla. Il re non riuscì a capire il perché di quei gesti così tranquilli, e nemmeno il resto dei fratelli. Solo Ettore, che sedeva alla sua destra, la assecondava con lo sguardo, ch'ella riuscì a cogliere al volo.
«Sono arrivata con tutte le altre, a dir la verità, solo che ho avuto la sfortuna di stare dietro. Non succederà di nuovo», si giustificò, iniziando a gustare la focaccia ai fichi che degli schiavi le avevano posto dinnanzi.
«Lo spero bene, Euridice», rispose il sovrano, «e vedi di fare in fretta, stamattina hai molto da fare. Andromaca ti spiegherà tutto più tardi.»
Così dicendo, lanciò uno sguardo verso la nuora che annuì, intridendo gli occhi di una tipica maliziosità femminile, che a possederla, solitamente, erano quelle donne maritate che spesso e volentieri si offrivano di esser d'aiuto alle più ingenue e inesperte, proprio come Creusa era considerata. Avevano pressocché la stessa età, quella fiorente e limpida dei vent'anni: la principessa avrebbe potuto sposarsi tempo addietro, ma avevano atteso che il figlio di Anchise completasse il suo addestramento prima di congiungerli in matrimonio. Andromaca, invece, già da quattro anni viveva alla casa di Priamo come sposa di Ettore, e viste le sue mancate gravidanze la si credeva sterile. In realtà, c'era stato un bambino prima, che avevano chiamato Laodamante, ma, come molto spesso succedeva, era morto mentre la madre lo stava dando alla luce. Poi ve ne fu un altro, Ossinio, deceduto anch'esso per le stesse cause. La madre e il padre n'erano morti di dolore, ma in loro vigeva ancora una luminosa e mai perduta speranza.
Infine, la moglie di Ettore si rivolse alla cognata che le era seduta accanto, sussurrando qualcosa al suo orecchio che gli altri avrebbero fatto meglio a non sentire: «Soprattutto perché, Creusa, credo che Enea ti farà assaporare molto poco il sonno, una volta sposati.»
La fanciulla scoppiò a ridere silenziosamente, ma fu per di più un sorriso ammaccato: tutte quelle frasi si rifacevano perfettamente alla serata che aveva trascorso appena, e temeva che gli altri conoscessero tutto e stessero facendo ogni cosa pur di non umiliarla, non risparmiandosi, però, piccanti riferimenti.
«Oh, cognata cara, ne sono convinta», finse quella risposta con una tale bravura che sembrò più naturale ad Andromaca che a lei stessa.
Quando ebbero finito, ai maschi fu concesso di alzarsi e di raggiungere il ginnasio, guidati dal padre che aveva il compito, con Antenore, di amministrare le nuove conquiste territoriali: da che Troia aveva visto la luce, era sicuramente stato il sovrano più grande, ponendo rimedi persino lì dove pareva non ci fossero più speranze. Priamo aveva molti difetti, era una persona altalenante, che sapeva essere giusta così come molto crudele, saggia quanto stupida, magnanima quanto irremovibile nel peccato... però non gli si poteva negare la straordinaria capacità da regnante, che gli aveva trasmesso suo nonno Ilo. Il padre, Laomedonte, per quanto simile negli atteggiamenti era stato interamente diverso nel governo: meschino, losco e bugiardo, aveva mandato in rovina una città intera, e solo lui, Podarce, il minore dei suoi figli, era stato in grado di risollevarla. Sì, aveva molti difetti, ma le qualità da despota le possedeva tutte.
«Figlie mie,» dall'altro lato, invece, la regina richiamò le fanciulle, «voi seguitemi, e tu in particolare, Euridice.»
Creusa ne fu sorpresa – non era solita andare dietro sua madre dopo la colazione –, al punto che le venne spontaneo domandarle il perché di quella divergenza mattutina, una volta che le fu accanto.
«Mia cara,» si rivolse alla primogenita, prendendo le sue mani, «oggi ci recheremo al tempio di Diana: non saremo nel Gamelia, ma credo sia proprio la stagione adatta per celebrare il tuo matrimonio. Ah, il sesto mese, così caldo per accogliere l'animo infuocato di una giovane...»
«Madre!» esclamò Creusa, stavolta sinceramente divertita, «Smettila, te ne prego!»
Le guance le si arrossarono totalmente, proprio come lingue cremisi di un fuoco caldo e crepitante, che con ardore esplodevano sul suo volto, rendendosi ben visibili a tutte le altre sorelle e ad Andromaca.
«Non temere, Euridice, tutto ciò che dovremmo fare sarà fatto: ti consiglierei di goderti questi giorni, non ricapitano spesso,» comunicò Andromaca, afferrandola per le spalle e conducendola lontano dalle altre sorelle.
«I-in che senso?» chiese quest'ultima, spaesata.
«Sono gli ultimi giorni che trascorrerai in compagnia delle tue sorelle e delle tue compagne, prima di divenire... la principessa di Dardano», Creusa notò una certa ostinazione da parte della cognata nel pronunciare quelle frasi, e poiché detestava essere sminuita – già da suo padre, figurarsi da parte sua – preferì prendere un po' di quella malizia e trasportarla dentro di sé, come a voler toccare un punto dolente all'interno dell'animo di Andromaca.
«Credo tu intenda la regina di Dardano», la corresse, simulando sul volto un sorrisetto tipico di chi, con l'astuzia, otteneva ciò che voleva. La reticenza della moglie di Ettore si concretizzò sul viso pallido e inespressivo.
«S-sì...» sussurrò, «quello... vorrai anche deciderti a far subito figli, sicché Enea abbia già un erede a cui passare il comando?»
La nota di rabbia presente nelle sue parole la rallegrò, piuttosto che mortificarla: la perfettissima Andromaca che cedeva agli impulsi a causa della cognata, da sempre vista come lo scarto della famiglia. Iliona era la sorella che meglio riusciva nei lavori; Laodice la più bella; Cassandra la più ambita sentimentalmente e Polissena, in qualità di figlia minore, la più amata. Ed ella? Ella non era nessuno: bellissima ma non troppo, brava nei lavori ma non troppo, ambita dagli altri ma non troppo... cominciò a dubitare persino di cosa Enea ci vedesse di speciale in lei, e invece osservò quanto suo fratello fosse dedito alla moglie.
«Perché no?» domandò, nonostante il suo tono fosse totalmente diverso rispetto a quello usato poco prima, quasi a sottolineare un dispiacere venutosi a creare successivamente.
«Che la Fortuna sia dalla tua parte, allora,» disse la principessa, avanzando di molto il passo, «prepara le tue cose, e se ti va di invitare qualche tua compagna fallo pure: stasera andremo al tempio di Apollo e Diana.»
Andromaca si allontanò senza più aggiungere nulla: si sentiva offesa, umiliata, e Creusa parve condividere perfettamente quelle sensazioni, seppur sotto una luce totalmente diversa. Si vedeva come ostacolata, in qualche modo, dal continuo essere migliore della cognata, dal continuo essere considerata inferiore: ciò bruciava dentro di lei, poiché in cuor suo sapeva che avrebbe potuto dare molto di più di quanto gli altri vedessero. Realizzò che, in fin dei conti, erano le menti altrui che decretavano quale criterio valutare e quale no, attuando un attento discernimento.
Creusa era sull'altra sponda, irraggiungibile per uomini come Ettore, di cui era la migliore amica... nemmeno lontanamente si sarebbe immaginata al fianco di uno come lui, e forse la differenza era quella: a ognuno spettava ciò che più perfettamente combaciava con la propria metà, e se Andromaca aveva bisogno di qualcuno che le infondesse fiducia e sicurezza, proprio come Ettore, Creusa necessitava di una persona in grado di decifrarla, capirla e poi apprezzarla, amarla... proprio come Enea.
Euridice sorrise, ripensando alla notte precedente e a come, per la prima volta, si fosse addormentata serenamente tra le braccia di un'altra persona, circondata dalla consapevolezza di potersi affidare a quest'ultima. Sin da quando era bambina aveva paura di aprirsi totalmente agli altri, persino ai suoi fratelli; aveva quella strana capacità di saper invitare le persone a confidarle tutto quello che avevano dentro, rimanendo però privata ed elusiva quando si trattava dei suoi pensieri, e di ciò che stava vivendo. Quello l'aveva condotta a un continuo immagazzinamento delle gioie e dei dolori, l'aveva resa intrepida, forte, corazzata come un guerriero... ma le era sempre mancato il coraggio di parlare e di lasciare che la sua controparte l'avesse ascoltata.
Col consenso della regina Ecuba, poté recarsi alle scuderie e in seguito dall'unica compagna di cui realmente si fidasse, Alike: se, come Andromaca aveva detto, avesse potuto invitare qualcuno, in quegli ultimi giorni da nubile, Alike sarebbe stata decisamente in cima alla lista, addirittura sulle sue sorelle. Iliona era tornata in Tracia e ivi sarebbe rimasta sino al matrimonio, dunque era l'unica che avrebbe potuto tenerle compagnia. Si diresse alle scuderie e tirò fuori Ete, la cavalla di cui Enea si era servito sino a qualche ora prima e, dopo averle dato del fieno di cui nutrirsi, vi salì in groppa e velocemente cavalcò verso Dardano.
La città, vista dalla lontana Troia, si mostrava come in un'ineffabile salita dalle pendici verso la sommità del monte Ida: la casa di Alike, che assomigliava a una piccola reggia incastonata nel verde, si trovava in parallelo al palazzo reale dei dardanidi, ove abitava Enea. Dapprima, si poteva riscontrare una certa difficoltà nel riconoscerla o anche solo accorgersi della sua esistenza; gli alberi creavano una sorta di invalicabile barriera protettiva, e sottolineava quanto quella famiglia fosse dedita alle attività rupestri. Anche i figli più giovani, che al tempo non avevano più di nove e sette anni, contribuivano a portare avanti la tradizione di famiglia, seppur limitandosi alla caccia di semplici volatili e non di grossi mammiferi.
Se non avesse conosciuto la strada, probabilmente si sarebbe persa per i sentieri costellati dai numerosi arbusti che conducevano a quella dimora.
Dopo tanto cavalcare e sentire il rumore degli zoccoli, riuscì a intravedere la piccola reggia e le scuderie a essa annesse: non erano molto grandi, non come quelle reali che riuscivano a contenere più di mille esemplari, ma l'eccezionalità di quei puledri era irreprensibile.
Provenivano dalla zona più centrale dell'Asia Minore, dalle città di Abido e Percote che un tempo erano governate dagli zii di Alike, Anfio e Adrasto, e ora da suo fratello Asio: egli, con astuzia e potere, aveva saputo riunificarle sotto un unico impero, conquistando addirittura un'altra città e fondandone una tutta propria, Arisba. Portava il nome della madre, Arisbe, che era chiamata confidenzialmente Ida, come il monte su cui viveva.
La storia di costei era travagliata e insidiosa: quando era appena un'adolescente sposò Podarce, Priamo: la ripudiò non appena nacque loro figlio Esaco, veggente proprio come suo nonno. Intimorito da quel potere, il sovrano prese solo dopo come sposa Ecuba; non si sarebbe mai aspettato che anni dopo, proprio al suo compleanno, due gemelli avuti dalla seconda consorte avrebbero subito lo stesso fato. Leccati nelle orecchie da due serpenti, Eleno e Cassandra potevano perfettamente prevedere il futuro, seppur la donna con la pena di non essere mai creduta. Erano sempre i due uomini, difatti, a dover affermare le sue profezie.
Quando Creusa legò Ete a un libero giaciglio, fu proprio il fratellastro ad accoglierla, dato che in mattinata era lui a tenere l'ordine nella scuderia: l'aveva sorpresa da dietro, cingendole il torace con le sue braccia e sollevandola in alto proprio come quand'era bambina. Esaco era di ben quattordici anni maggiore, e lo dimostrava nel volto contornato da qualche ruga, specie in prossimità dello sguardo.
«Euridice!» esclamò, «Sei forse venuta a trovarmi?»
La domanda era leggermente inutile: con lui che guardava nel futuro e interpretava i sogni, sapeva perfettamente per chi fosse la visita, o avrebbe dovuto saperlo.
«Mi spiace deluderti, ma in verità no,» rispose Creusa, roteando un poco lo sguardo verso l'alto e riconducendolo agli occhi verdognoli del suo interlocutore, «sono qui per Alike.»
Lo so, avrebbe voluto risponderle, ma sarebbe sembrato troppo da uno desideroso di sottrarsi a una brutta figura. Esaco si risistemò la tunica sulla spalla e annuì: «Tu aspettami qui: farò arrivare due famigli da te che ti condurranno da mia sorella. Che strano,» iniziò a ridacchiare tra sé e sé, «le mie due sorellastre che hanno due genitori che si odiano e sono migliori amiche.»
«E quindi?» domandò una piccola voce proveniente da chissà dove, «Due dei tuoi fratellastri sono amanti!»
A quell'affermazione, che Creusa apprese immediatamente a chi fosse riferita, entrambi sbiancarono. Esaco riconobbe in un istante a chi appartenesse quella fastidiosa vocina squillante, e non appena si voltò, vide un bambino dai folti capelli, ricci e nerissimi, e gli occhi vispi. Lo prese in braccio con affettuosa violenza e lo guardò negli occhi, fingendo di fulminarlo con lo sguardo: «Ippocoonte, tu, piccola peste, non osare mai più usare quel termine nei confronti dei miei fratelli.»
«Fratellastri,» precisò quest'ultimo, ridendo di gusto: Ippocoonte era l'ultimo figlio, e aveva solo sette anni. Da tempo, tuttavia, era considerato il più sveglio di tutta la famiglia: la sua era un'intelligenza vivace, che si sviluppava velocemente e con vigore, diversa da quella strategica posseduta da Alike, da quella imperiosa messa in atto da Asio, o da quella opposta del suo quasi coetaneo Niso, che invece accresceva in silenzio. Proprio quest'ultimo si presentò dietro di loro, con la faccia di chi era esaurito dalle chiacchiere o che era stato lasciato solo a un appuntamento; aveva in mano un fiore, che Creusa riconobbe immediatamente di sambuco, visti quanti ne crescevano lungo le sponde del Simoenta.
«È decisamente il peggior fratello e amico del mondo,» commentò Niso, «eravamo a caccia e improvvisamente è sparito.»
Di nuovo, Esaco minacciò con il solo sguardo Ippocoonte, che assunse un'aria innocente, e Creusa sorrise sotto i baffi.
«In ogni caso salve, Euridice,» la salutò l'altro Irtacide, che si fece avanti, «questo tienilo pure tu: è un fiore di sambuco, e indica fertilità e una vita prospera. Potrebbe servirti, in futuro.»
Euridice lo prese sorridendogli, ed emettendo un sentito: «Ti ringrazio,» verso il bambino che aveva di fronte. A differenza del fratellino, i capelli di Niso erano lisci, di un castano chiaro, e gli occhi verde acqua come quelli di sua madre: l'unico, in tutta la famiglia, a possedere quel colore.
Esaco, poco dopo, posò a terra Ippocoonte, dandogli una pacca sulla testa, e sbuffante si diresse a chiamare i servitori per l'altra sorellastra. Costoro accorsero immediatamente: si preoccuparono di prenderle e conservarle il peplo – troppo formale per un incontro con una compagna – e la scortarono presso le stanze di Alike, che si trovavano nel lato più alto della casa. La donna diceva che l'altezza della sua camera la metteva in contatto costante con la natura e gli alti abeti che si elevavano al cielo. Sul lato sinistro della stanza, che era quello esterno, un'enorme apertura consentiva al vento fresco di entrare nella camera: ella vi si poggiava vicino e pensava, o leggeva le missive inviatole da suo fratello Asio, che l'aggiornavano sulle novità ad Arisba.
Quando Euridice entrò in camera, Alike fu veramente sorpresa di vederla; non stava facendo nessuna delle due attività che era solita fare, e Creusa ne fu sorpresa. In realtà, stava osservando un abito molto elegante, costituito da una tunica bianca ben intessuta – che Alike non avrebbe mai messo, se non in un'importante occasione – e un peplo azzurrino, dello stesso colore del cielo e del mare poco profondo. Nel momento in cui si avvicinò, poté notare meglio le rifiniture che componevano i bordi della veste, e i filamenti dorati che invece costituivano un abile ricamo sul peplo. Accanto all'abito v'era un velo color zafferano e un filo che avrebbe dovuto tenerlo saldo sul capo; sul pavimento erano adagiati dei sandali che potevano intrecciarsi fino alla caviglia.
«Creusa!» esclamò la principessa dardanide, «Sono felice di vederti qui.»
La compagna non ancora aveva potuto rivolgersi a dovere, incantata com'era sul peplo e la tunica situati sul letto di Alike.
«È per il tuo matrimonio?» si permise di domandare la giovane Priamide, che spostò poi lo sguardo sul suo volto. L'Irtacide annuì, e aggiunse spontaneamente: «Un servitore di zio Antenore me lo ha portato oggi ben confezionato, cucito nientemeno che da Teano. Anche se la cerimonia delle mie nozze è stata posticipata al Gamelia per far spazio alle tue, di nozze, la zia si è premurata di cucirmi in anticipo un peplo che richiamasse motivi geometrici particolari. Vedi,» mentre parlava, le mostrò i ricami situati sul peplo e il loro occulto significato, «su questo tessuto azzurrino e ripiegato eccezionalmente sono cuciti dei filamenti d'oro che ricalcano il corpo di una nereide che cavalca le onde, come per ottenere la loro benedizione. Sul fondo, invece, sembrano mostrarsi piccoli petali di fiori, proprio come quelli che hai in mano: te li avrà dati mio fratello Niso, e indicano una vita prospera, fertile, ciò che più può sperare una donna adulta come me...»
Difatti, Alike aveva due anni in più a Euridice, la stessa età di Enea. Essendo nata, tuttavia, solo poco prima del fratello minore Asio, colui che avrebbe dovuto portare avanti la discendenza, non era mai stata destinata in sposa. L'irremovibilità di Asio nel suo celibato – cosa odiatissima, seppur minimamente tollerata – aveva reso necessario un matrimonio per Alike, che aveva trovato un valido candidato nel suo coetaneo Seresto. Anche lui di stirpe reale, possedeva un grande podere in Frigia, terra di suo padre, e aveva stabilito una salda alleanza con Dardano e gli Irtacidi. Si aggiungevano a queste doti anche delle qualità più soggettive: difatti, oltre a essere nobile di nascita, era anche un ottimo guerriero e cacciatore.
«Davvero notevole,» valutò Creusa, «da questo punto di vista zia Teano è davvero imbattibile. Pensa che ha intessuto anche il mio abito e che non l'ho ancora visto!»
«Vorrà dire che sarà splendido,» disse Alike, «proprio come tu più di chiunque altro meriti.»
Euridice sorrise: la sua compagna era sempre stata più logica che emotiva, più fredda che calda, ma una volta che vi si entrava in confidenza sapeva essere una spalla da non sottovalutare. Poi proseguì: «Ti volevo chiedere se ti farebbe piacere accompagnarmi al tempio di Diana quest'oggi, per i sacrifici da offrire alla dea. La tua compagnia è più gradevole di quella di tutte le mie sorelle... e di mia cognata.» Nel pronunciare quella frase, Creusa parve sbuffare, nonostante non avesse emesso alcun rumore e avesse esclusivamente alzato gli occhi al soffitto. Che tra lei e Andromaca non fosse mai scorso buon sangue era risaputo, soprattutto per il ruolo che a palazzo rivestiva la principessa di Tebe Ipoplacia: ammirata da tutti, a partire dai sovrani, era sempre stata posizionata un gradino sopra tutte le Priamidi, e Creusa ne soffriva. Sempre il solito discorso di voler – o saper – vedere solo ciò che conveniva. Nemmeno ad Alike Andromaca piaceva così tanto, si era sempre limitata a trattarla con indifferenza: ciò che la distingueva da Creusa era l'aria di superiorità invisibile che l'Irtacide si dava. Forse perché non aveva mai del tutto apprezzato o vissuto la vita di corte, ma poco le importava di Andromaca e dei suoi successi: ella aveva i propri così come lei aveva i suoi, e non c'era nulla da invidiarle. Forse Euridice sentiva su di sé il peso di suo padre, di sua madre e di sua zia, un eterno giudizio che vigeva su di lei. Sarebbe stata capace? Non lo sarebbe stata? Solo il Fato avrebbe potuto decretarlo.
Mentre la invitava ad avvicinarsi alla spaziosa finestra, Alike le chiese col tono di una sorella maggiore cosa fosse successo. L'altra roteò lo sguardo, scocciata di ripetere gli avvenimenti di quella mattinata, ma sapeva che se avesse voluto la piena fiducia della compagna avrebbe dovuto raccontarle tutto, anche ciò che più la infastidiva.
Intanto, la padrona della stanza aveva preso da un cassetto una spazzola e dei nastri di meandro per legare i capelli di Euridice, alla quale era solita fare delle trecce. La troiana li aveva sciolti, pronta a narrare l'accaduto alla dardanide che glieli spazzolava delicatamente. Le fanciulle nubili come loro erano solite intrecciare la propria chioma e tenerla lunga dietro la schiena, sino a quando, il giorno del matrimonio, non ne avrebbero accorciato la lunghezza.
«Sai che tra me e quell'imbelle principessina non corre un rapporto solido, stabile o felice, né mai ci siamo prese il lusso di costruirlo: vogliamo cose diverse e facciamo cose diverse. Solo che le sue sono apprezzate e le mie no,» sbuffò di nuovo, pentendosi di averla chiamata "imbelle principessina": era perfettamente consapevole delle capacità di Andromaca.
«Potrei capirti,» disse Alike, che le divideva in due la folta massa di capelli, «è molto diversa anche da me.»
Già, ad Alike e Creusa piaceva cavalcare, amministrare e alle volte anche cacciare: nonostante una donna rispettabile non fosse ritenuta tale qualora avesse eseguito tali attività, a loro era stato concesso, fino a un certo punto. Persino quelle due, poi, avevano dovuto imparare a tessere, a saper fare il pane e dirigere quegli stessi lavori nelle serve. Ciò che avevano conservato del loro primo apprendimento erano sicuramente il saper suonare il flauto, andare a cavallo, leggere e scrivere. Ad Alike l'aveva insegnato suo nonno Merope, a Creusa l'aveva insegnato Alike: di conseguenza, se avessero avuto figlie femmine avrebbero imparato quello e quello.
«Già,» affermò dopo un po' Creusa, «l'unica differenza è che a te poco importa: non so tu come faccia, ma lo lasci perdere, come se ti facessi ripulire dall'acqua del Simoenta dopo essere finita nel fango.»
Alike sorrise: legò l'ultima delle due trecce che aveva fatto a Euridice con il nastro di meandro – utilizzato dai nobili per fissare i capelli: era particolare per i suoi motivi geometrici e il colore rosso scarlatto –, dopodiché la fece voltare verso di sé.
«Imparerai a farlo anche tu,» disse, imitando il tono di voce di una vecchia. Creusa scoppiò a ridere: «Smettila, sembri un'anziana sdentata che parla della sua vita con abile retorica!»
Stavolta la risata scoppiò ad Alike, che rimise in riga la compagna: «Su forza, sei pronta per andare al tempio: inizia a dirigerti alle scuderie, ti raggiungerò a breve.»
Euridice annuì: dopo essersi sistemata la tunica sulla spalla, scese ai piani inferiori, dove i famigli le riconsegnarono il peplo che indossò di nuovo. Chiese a Esaco di riconsegnarle la sua Ete, una volta giunta alle scuderie, e proprio nello stesso momento arrivò anche Alike, che prelevò dalla scuderia il suo cavallo, completamente nero, che lei aveva chiamato Astilio, proprio come uno dei centauri. Il suo nome, a dir la verità, non era casuale: Astilio aveva fama di essere un veggente e di prevedere il futuro, così come il nonno di Alike, Merope, e suo fratello Esaco. Appena glielo assegnò esclamò: «Che bello! Un altro indovino in famiglia!» e fu accolta dalle fragorose risate degli altri.
In seguito, cavalcarono sino alla città di Troia, al tempio di Diana, che accoglieva l'abbandono della verginità delle fanciulle e lasciava che esse passassero a Venere e Peitò, le divinità che più delle altre simboleggiavano il sesso e l'amore. Creusa s'imbarazzò leggermente a pensare che quelle due dee le aveva giusto incontrate la sera precedente, mentre era con Enea e v'era giaciuta per la prima volta. A dir la verità, considerava proprio quello il vero matrimonio, ancor prima di tutti i rituali che dovevano verificarsi. Di quello non aveva il coraggio di parlare con Alike, né di pensarvi in quel momento: sapeva di aver errato, ma era stata talmente colta dalla frenesia del momento e dal reciproco desiderio che non aveva resistito. Per poco Ettore non scopriva ciò che aveva totalmente fatto quella sera, anche se in cuor suo sapeva che egli ne fosse a conoscenza fin nei particolari: ciò che le incuteva timore era il fatto che Ettore fosse una persona che agiva il più velocemente possibile, e non avrebbe esitato a prendere a botte Enea se solo avesse potuto. Non si sarebbe meravigliata se gli avesse rotto il naso o massacrato, ma sperava che si fosse dato del contegno o che addirittura non si fosse scagliato contro come si era ripromesso. Forse a fermarlo erano state proprio le parole che gli aveva rinfacciato nel corso di quella mattinata.
Quando i cavalli furono riposti dinnanzi al tempio, in una zona a loro dedicata, Alike e Creusa si diressero presso l'ingresso, dove trovarono pronto il carro che conteneva gli oggetti che durante l'infanzia accompagnarono Euridice. Poté notare una vecchissima trottola intagliata nel legno di acacia, delle bambole lunghe, sempre fatte di legno, molto simili alle statuine degli dèi che adornavano il tempio, e infine qualche veste ricamata di quand'era molto piccola. Non si ricordava niente di quel periodo, ma per un momento parve ripercorrere tutte le tappe che l'avevano portata a essere la donna che era quel giorno. Sentì immediatamente che una mano si adagiava sulla sua spalla e le cingeva il collo: il profumo familiare e incredibilmente femminile la indussero quasi immediatamente a indovinare chi fosse.
«Zia,» la salutò, rivolgendo il suo sguardo verso Teano, «me li hai cuciti tu questi?»
La donna annuì: «Mi sono presa cura di te prima di quanto tu creda, cara. E lo farò anche oggi: sarò io ad accompagnarti all'altare, dove Pantoo ci aspetta.»
«T-tu?» domandò Creusa, che si guardò intorno, «Dov'è Alike?»
«Sì, è stata un'esplicita richiesta di tua madre. Per quanto riguarda la tua amica, l'ho fatta accomodare nel tempio,» rispose la sacerdotessa, con un tono pienamente sicuro di sé.
«D'accordo,» confermò Euridice, «allora entriamo.»
Con un gesto decisamente teatrale, Teano indicò a sua nipote l'altare dove si sarebbero stanziate. A quella cerimonia c'erano molti membri della loro famiglia, e tutti al femminile: presso le prime file si potevano notare la regina Ecuba, Cassandra, Polissena e Alike, poco dietro Laodice e Andromaca. Lo sguardo di costei, in particolare, era austero e disinteressato, come se fosse stata obbligata a venire lì, cosa che in realtà era successa. Quando, quattro anni prima, il rituale era stato rivolto verso di lei, Creusa aveva la medesima espressione. Sentiva, in qualche modo, che tra lei e la futura cognata sua coetanea non ci sarebbe mai stato un rapporto sereno, e solo una figura mediatrice come Ettore avrebbe potuto domarle. Erano come il mare calmo e quello in tempesta, un miscuglio di emozioni simili e contrastanti che andava a scontrarsi e a sovrastarsi. D'altra parte, la similitudine calzava eccome: il mare era sempre costituito da gocce d'acqua, era la forma in cui si mostrava che era differente. Creusa, così come tutti sottolineavano, era un'onda capace di trascinare migliaia di detriti e di non saper controllare se stessa. Allo stesso modo, dicevano che quando avrebbe imparato a farlo sarebbe stata capace di tutto, persino di saper usare le parole per curare le persone, e non per ferirle, come più solitamente accadeva. Quella mattina ne era un chiaro esempio.
Uno schiavo delegato e ben abbigliato aveva condotto la carretta dei doni dell'infanzia della principessa presso l'altare, dove Pantoo, l'unico uomo presente, attendeva la festeggiata. La vide entrare l'attimo dopo, affiancata dalla zia che camminava a testa alta. Pur non essendo molto elevata di statura, Teano risultava imponente in qualsiasi situazione, e Creusa mirava a eguagliarla. La sacerdotessa di Minerva era, infatti, la persona più potente di Troia dopo il re: custodiva il Palladio, la statua protettrice della città, e riusciva a muovere masse di donne semplicemente con la sua parola. Aveva a cuore il suo ruolo più di chiunque altro, e avrebbe fatto di tutto pur di preservarlo.
Quando giunsero presso l'ara sacra, offrirono i giocattoli alla dea Diana, ripetendo costantemente una sola parola, a voce altissima: «Προτέλεια, προτέλεια!», quella parola stava a significare letteralmente "preludio", "inizio", e nella maggior parte dei casi era proprio così: l'inizio di una nuova vita, di un nuovo percorso, di un nuovo ruolo. L'età della giovinezza era finita, e solo gli dèi potevano benedire quella transizione, Venere e Diana tra tutte.
Poi arrivò l'ultimo rituale, quello che più degli altri le fanciulle attendevano: il taglio di una ciocca di capelli, simbolo del definitivo passaggio all'età adulta. Quella festa, almeno per come l'avvertiva Creusa, era più un cambiamento di se stessa che un trasferimento verso una nuova famiglia. La sua. Teano entrò in azione proprio a quel punto: dopo che Pantoo aveva riposto in una cassa di bronzo tutti i vecchi oggetti della principessa, la donna poté avvicinarvisi e prendere una lama affilata, intimandole di abbassare la testa. Euridice prese a sciogliersi una delle due ciocche intrecciatole da Alike, e la sacerdotessa prese proprio un mucchio di capelli lievemente arricciati che le erano ricaduti sulla fronte. Poi lo tagliò col pugnale: con quel rito, Creusa poté ufficialmente ritenersi pronta.To be continued...
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𝐃𝐄 𝐕𝐈𝐑𝐈𝐒 𝐄𝐓 𝐌𝐔𝐋𝐈𝐄𝐑𝐈𝐁𝐔𝐒 𝐂𝐎𝐍𝐒𝐄𝐂𝐑𝐀𝐓𝐈𝐒 𝐈𝐋𝐈𝐔𝐌 ✓
Historical FictionDISPONIBILE SU AMAZON IN KINDLE E CARTACEO! 𝐃𝐄 𝐕𝐈𝐑𝐈𝐒 𝐄𝐓 𝐌𝐔𝐋𝐈𝐄𝐑𝐈𝐁𝐔𝐒 𝐂𝐎𝐍𝐒𝐄𝐂𝐑𝐀𝐓𝐈𝐒 𝐈𝐋𝐈𝐔𝐌 𝗪𝗔𝗧𝗧𝗬𝗦 𝗔𝗪𝗔𝗥𝗗 𝗪𝗜𝗡𝗡𝗘𝗥 𝗜𝗡 𝗛𝗜𝗦𝗧𝗢𝗥𝗜𝗖𝗔𝗟 𝗙𝗜𝗖𝗧𝗜𝗢𝗡 𝙲𝙾𝙼𝙿𝙻𝙴𝚃𝙰 ©️-𝙢𝙮𝙥𝙞𝙣𝙚'𝙨...