22. La Forza Dell'Amore Pt. IV

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La notizia della disfatta dei servi di Judas non giunse subito nei meandri del loro mondo, tanto che l'obiettivo era rimasto quello di uccidere i due figli spirituali di Simon, i quali erano ancora lì, fuori dalle loro celle, in attesa del loro destino.

Ariel era rimasta a fissare quegli occhi gelidi e privi di vita: sassi incastonati in un viso pallido e dalle occhiaie marcate.

Il cappuccio nero del mantello che Acab indossava copriva i suoi lineamenti, lasciando che lo sguardo si concentrasse in quelle pupille assenti.

Dietro di lui, Judas poggiava la mano sul capo del figlio, presentandosi con un ghigno sinistro e occhi alteri.

La figura di Acab emanava un'aura oscura all'interno della quale sembrava essere imprigionato mentre ombre si propagavano nel luogo come tentacoli: tenebre che si avvicinavano ai due prigionieri acuminando le estremità come frecce.

Lo scudo della fede contro i dardi del male. Quelle parole rimbalzarono tra i ricordi di Joshua.

Erano le parole che Simon utilizzava per placare gli incubi di Caleb; quando capitavano, Simon correva nella sua stanza e, nonostante le urla del ragazzo, lui gli prendeva testa e se la poggiava al petto, rassicurandolo con quelle parole, come se il Padre potesse essere quello scudo di fede contro il male che si insinuava nell'animo puro di quel ragazzino.

«Bene Acab, perché non dici ai nostri prigionieri come mai siamo qui?» intervenne Judas, entrato nei ricordi di Joshua come una mano dai lunghi artigli, arrivata a spegnere ogni lucignolo fumante; deglutì, inghiottendo quel senso di colpa che lo opprimeva ogni volta che ripensava a suo Padre e al suo amore; irrigidì i muscoli, aumentando la frequenza del respiro.

«Uccidere il Leone. Io devo uccidere il Leone» diceva Acab in una tetra melodia, ondeggiando il capo e il busto avanti e indietro come una marionetta.

A quelle parole, una scarica elettrica scosse la giovane Ariel, che conficcò le unghie nel dorso della mano di Joshua, rimasto immobile e attonito.

Con i muscoli tesi spostò gli occhi verso la mano destra del carnefice, notando lo strumento della loro fine: una lunga lama la cui impugnatura era nascosta nel palmo rigido di Acab.

A Joshua bastarono pochi secondi per confermare ciò che aveva percepito nei pochi giorni in cui Ariel era rimasta in quel luogo: il dorso della mano di Acab mostrava le venature, le nocche bianche e l'avambraccio subiva spasmi impercettibili, sintomo - secondo Joshua - di insicurezza e paura.

«Vuoi veramente ucciderla, Acab?»

Judas sogghignò. «Credi di poterti salvare così? Puoi dirgli quello che vuoi tanto non può ascoltarti.»

«Sono menzogne, io so che mi stai ascoltando, Acab.»

Il capo di Acab ondeggiò come un animale da circo, privato di ogni coscienza. Sembrò davvero che il ragazzo non potesse ascoltarlo.

«Tu non vuoi ucciderla.» Joshua si mosse con un passo trascinato, tenendosi dalle sbarre della cella di Ariel; negando col capo, allungò la mano verso quelle ombre, che parvero sfiorarlo senza fargli del male. Voleva arrivare a toccare il suo torace.

Ariel non riuscì a capire le intenzioni di Joshua e lo tirò verso di sé, pregandolo di non muoversi.

Lui roteò il capo verso di lei, con un gesto di stizza, fulminandola con lo sguardo.

«Fidati di me!» le aveva sussurrato, a denti stretti.

Lei lo lasciò e nuove lacrime le rigarono la pelle. L'avrebbe perso, di nuovo. Era una certezza che gli si era conficcata nel cuore, come la lama affilata di Acab.

Bastò un passo e Joshua poté poggiare il palmo al petto gelido di Acab. Sentì un battito eccessivamente accelerato, mentre la mano sembrò intorpidirsi, come punta da stalattiti di ghiaccio invisibili.

Sapeva che doveva farlo perché era l'unica soluzione: Judas non avrebbe potuto muoversi e lasciare il controllo sulla mente di Acab, ma il cuore - Joshua lo sapeva bene - lo conosceva solo Gesù Cristo.

«Tu la ami»

Pronunciò e un calore avvolse il suo palmo: la sensazione di una primavera che germogliava tra i battiti.

Ariel trasalì con gli occhi sbarrati all'inverosimile e la bocca spalancata.

Sul volto di Joshua comparve un mezzo sorriso e, forte della sua intuizione, continuò, avvicinandosi all'orecchio: «Ti ho visto scrutarla di notte, tormentandoti perché non avresti voluto farle del male. Tu non la vuoi uccidere. Tu la vuoi libera!»

Un urlo agghiacciante allontanò Joshua, costringendolo a tenersi dalle inferriate della cella; un acido bruciante percorse il suo esofago, accompagnato dalla sensazione di aver fallito.

Acab tese i muscoli mostrando le vene di braccia e collo, mentre le ombre aumentarono, saettando fino ad Ariel, che si inginocchiò al suolo coprendosi il viso con le mani.

«Acab!» urlò Joshua. «Non farlo! Uccidi me!» con una lacrima che gli rigò lo zigomo, «Uccidi me!» le ginocchia arrivarono a toccare la pietra della pavimentazione e, allargando le braccia a protezione della giovane, serrò le palpebre. «Ti prego!»

Ariel urlava, avvertendo ferite che si aprivano sulla pelle delle gambe e delle braccia. La fronte toccò il pavimento ruvido, quando le sue mani strinsero i capelli tra le dita, fino quasi a strapparli dalla radice.

In quegli attimi interminabili, solo le gelide sghignazzate di Judas riecheggiavano soddisfatte.

Poi quelle risate si bloccarono di colpo.
Joshua non volle aprire gli occhi, anzi fu portato a serrare le palpebre con più vigore, fin quando l'udire di un liquido copioso che cadeva al suolo non lo costrinse ad aprire gli occhi.

Si ritrovò le ginocchia nude lambite da un liquido scuro, lucido e dai riflessi rossi.

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