Silenzio totale nel locale grigio.
La luce del sole filtra a tagli e si getta sul muro incolore e sulla torre dei fili, i cui led paiono spenti. Solo avvicinandosi - superando plastica e cotone delle sedute vuote e legno dei tavoli a ingombrare - s'inizia ad udire il ticchettio del mouse.
Sta lavorando, per cui è costretta alla concentrazione. È così intensa da risucchiarla: lei è puro sguardo. Non esiste più a favore di quel rapporto richiesto tra la mente e lo schermo.
Prima di scorgere altro che spalle ricurve e labbra strette, celate da un velo di capelli scuri, c'è da superare la scatola del computer. Un altro led lampeggia a festa; a fatica si ignora.
Dapprima si ritrova la sua mano, estrema propaggine del mouse; è fatta apposta per circondarlo e guidarlo, sempre nello stesso spazio seguendo tragitti radicalmente diversi. Poi inizia lo schermo, poco prima del suo stesso piedistallo impolverato.
Le piccole cellule luminose riflettono i suoi pensieri, costringendoli in cornici ineludibili: bianco lattiginoso sotto mille livelli di lettere, simboli, immagini ferme e immagini in movimento. Non c'è logica oltre alla geometria, non c'è filosofia se non quella che regola lo spazio, nella tavola virtuale che ingabbia e modella la sua testa cancellando la sua esistenza.
Finché il sole percuoterà l'intonaco poco oltre il punto del suo focus, lei non si accorgerà di essere immersa in un mondo a tre dimensioni. Ci vuole del tempo per trasferire la propria anima in una freccetta di pochi millimetri, e può far male tornare indietro ad un corpo che può andare davvero in ogni direzione, a trecentosessanta gradi, e muoversi per migliaia di chilometri senza trovare possibili ostacoli.
Come può questo verificarsi? In che modo la rappresentazione di tre dimensioni si riduce a due sole e annulla la coscienza che il mondo vero è quello della foto, e non il bianco del foglio che la circonda?
Come essere sicuri che la nostra realtà non ha un retro candido? Che potrebbe essere usata per fare collage bianco-neri o filtro seppia con il solo ausilio di un paio di forbici e un tubetto di colla?
C'è davvero differenza tra questo suo corpo, dalle lunghe ciglia umide per la concentrazione e il chiaroscuro della stanza, e quella frecciolina col contorno nero, che saltella a destra e a manca in un nervoso viavai? Se lei fosse nei suoi stessi occhi, in quello sguardo così intenso da potersi quasi sfiorare con le dita - azione ineludibile dell'esistenza, proiezione dell'anima sulla realtà - la risposta sarebbe no.
Se la carne fosse trappola, gli occhi finestra, noi saremmo soltanto coscienza: il puntatore sarebbe libertà, o forse cella più angusta ma con una punta di gradita novità.
Si accorge di me quando l'imposta viene spalancata dal vento.
«Ti piace? È ispirato a El Lissitzky»
«Rapisce», rispondo.