10. Risalita

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Dieci anni prima

Sopra di lui un frammento di notte incorniciato da bordi fra­stagliati. La voragine che lo aveva inghiottito sembrava pronta a richiudersi da un istante all'altro, come le fauci di uno dei temibili mostri dei film giapponesi che guardava da bambino.

La catastrofe era tangibile, se la sentiva addosso come la giacca lacerata in più punti dalla caduta. Per ogni metro guadagnato verso l'alto aumentava la paura di ciò che lo attendeva una volta tornato in superficie.

Non aveva la minima idea di dove fosse finito, non in un cre­paccio, impossibile, la parete sarebbe salita in modo più verticale.

Un semplice affossamento? In quel caso avrebbe dovuto poter vedere l'intera apertura, invece che la porzione sopra la sua testa.

Riccardo si arrampicava usando come sostegno il segnale stra­dale che gli era servito per liberarsi; il braccio sinistro gli procu­rava fitte di dolore insopportabili a ogni piccolo movimento, pur non mostrando i sintomi di una frattura era di fatto inservibile. Le gambe, per sua fortuna, non avevano subito danni, ma il cuoio del­le suole delle scarpe da ufficio lo costringeva a prestare la massima attenzione a dove posava i piedi.

Certo l'esperienza non gli mancava, la laurea in geologia era stata la naturale conseguenza della passione per il suo pianeta, col­tivata sin da ragazzino. Ricordava bene le estati trascorse nella casa di campagna dei nonni, quando si avventurava nelle grotte carsi­che che si aprivano lungo le pendici del monte Soratte; l'amore per la speleologia nacque proprio da quelle scorribande - pericolose sì, ma che lo facevano sentire una sorta di Tom Sawyer - un amore, che lo spinse a scegliere lo studio della Terra, dei suoi millenari movimenti e dell'immane potenza che custodiva nelle viscere.

Lo affascinava l'esistenza di forze in grado di stravolgere e mo­dellare i pianeti. Forze che agendo per intervalli di tempo non mi­surabili dall'uomo in una sola vita, decretavano i mutamenti e la fine di questi giganti dell'universo.

Un metro dopo l'altro la sua risalita proseguiva, il buio e la mancanza di punti di riferimento gli impedivano di capire quan­to mancasse al termine, poi qualcosa di cedevole finì sotto il tac­co della scarpa destra. Allungò la mano verso il terreno e afferrò quella che sembrava essere una cinghia, poi tirò con tutta la forza rimasta. Rimase piacevolmente sorpreso nel trovarsi tra le mani la sua ventiquattrore: ora sapeva che da quel punto mancava davvero poco alla cima della scarpata.

Si sistemò la valigetta a tracolla e riprese la marcia verso l'alto. Grazie forse al recuperato ottimismo, l'ultimo tratto che lo separa­va dal bordo della voragine gli sembrò meno ripido.

In poco tempo l'unica mano che poteva utilizzare strinse il co­stone di asfalto in cima al baratro che si sbriciolò sotto le sue dita.

Valutata l'impossibilità di puntellarsi con il gomito sano, af­frontò il bordo della voragine di spalle issando il bacino oltre quel­lo che era rimasto della strada. Con un ultimo colpo di reni riuscì a rotolare indietro, un secondo prima che il fazzoletto di asfalto appena conquistato franasse nell'oscurità.

Si trascinò al sicuro mettendo alcuni metri di distanza tra lui e il baratro, poi si rialzò in piedi e si costrinse a guardare.

- Merda! - mormorò.

Prima in lontananza, poi sempre più vicino, il rumore di pale e rotori riempì la notte.

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⏰ Last updated: Mar 24, 2020 ⏰

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