Ed ecco che quell'incubo ritornava ad incombere su di me. Non riuscivo a respirare, mi guardavo intorno e fissavo le pareti di quella stanza che ormai erano intrise di quelle urla che non sono mai riuscito ad emettere. Non potevo muovermi, tutto intorno a me sembrava essere reale, mentre quello di cui avevo più paura si nascondeva nell'ombra. Un'ombra sempre di più vivida, che avanzava piano piano verso di me e, al contempo, la mia paura era sempre più forte, talmente forte da sentire ogni singolo battito del mio cuore ad ogni singolo secondo. Era come se avessi un gigante dentro di me che non voleva fare altro che scappare, voleva fuggire da quella stanza che sembrava essere una piccola entrata verso un inferno che non aveva porte di uscita. Di tale inferno, se così può essere definito, si udivano delle grida agghiaccianti, grida che ti trapassavano la pelle, grida che ti portavano là dove nessuno ti avrebbe più aiutato, dove la speranza era ormai un'utopia, un qualcosa di irraggiungibile ma che ti ricordava, ogni singolo giorno, di essere presente e di non poterla in alcun modo raggiungere.
Più sentivo l'orologio alla parete scandire il tempo, secondo dopo secondo, più tentavo di liberarmi da quella presa che mi teneva ancorato in un incubo che non volevo più vivere. Quest'ultima, infatti, era così forte tale da sovrastare non solo il mio corpo, ma anche tutte quelle emozioni che nella vita avevo provato. Oltre alla paura e al senso di angoscia non riuscivo a sentire altro, come se delle catene stessero racchiudendo tutte le mie emozioni, e non riuscivo più a portarle in vita essendo privo di quella forza che tanto mi contraddistingue in vita.
Gli incubi, infatti, sono così. Ti conducono in un mondo che non hai mai chiesto di avere e ti obbligano a guardare e sentire sulla tua pelle ciò che tu di più temi. Ti fanno sentire come in un labirinto, dove non hai una bussola, non hai qualcuno su cui contare e ti senti perso, debole, fragile.
Imploravo me stesso di svegliarmi, imploravo un aiuto che non sarebbe mai arrivato. E quando ormai sembrava che io fossi l'unico essere vivente in una stanza che non vedeva vita da molto tempo, guardai sulla mensola al mio lato e incombeva su di me anche una piccola bambola di pezza che sembrava mi stesse deridendo, sembrava essere felice. Ma una felicità che noi esseri umani potremmo non conoscere, perché quella derivava dal nutrirsi della paura altrui. Più tentavo di urlare, infatti, e più il suo sguardo era felice e più io mi perdevo in quegli occhi finti, che apparivano più vivi che mai.
Le bambole, infatti, mi hanno sempre incusso un senso di angoscia e di terrore perché mentre tutte le persone vedevano in esse qualcosa di sereno, puro, qualcosa con cui poter sprecare il proprio tempo, io intanto notavo qualcosa di più profondo e sconosciuto. Cercavo di comunicarlo agli altri, ma questi mi deridevano, mi prendevano in giro e ora, nel mio luogo più intimo, sono diventato anche la beffa del mio peggior nemico.
Ed ecco che ora che era diventato tutto buio, e notai un movimento, seppur impercettibile, in quell'oscurità così profonda. Quest'ultima, infatti, iniziava a prendere forma, iniziava a trasformarsi in una figura che non riuscivo a riconoscere. Una figura che era snella ma, a tratti malforme, priva di un viso completo e quello che mi ricordo era quel bastone che aveva alla mano, con il quale colpiva il pavimento contemporaneamente al battito del mio cuore. La presa, che mi teneva prigioniero, intanto, si era allentata e ormai quello che provavo non era più soltanto paura, era anche una forte nostalgia, una nostalgia di tornare nella mia piccola stanzetta illuminata da quei flebili raggi di sole, un sole che ormai era stato sostituito dalle mie silenziose urla.
Man mano che l'oscura figura si avvicinava, e la bambola sembrava divertirsi ancora di più, iniziai a non sentire più quel ticchettio dell'orologio. Anche il tempo, che è la costante di tutti gli esseri viventi, mi aveva abbandonato e, devo ammettere, che lo avrei fatto anche io. Anche io sarei scappato, anche io avrei lasciato quella stanza se solo ne avessi avuto la forza.
La scena iniziò a scorrere a rallentatore, l'uomo, se poteva essere definito tale, iniziava a far brillare i suoi occhi di una luce, una luce che ancora oggi mi pervade il corpo e non mi lascia respirare. Quell'uomo stava aspirando tutta la mia vitalità, compresa la paura. Cercai di divincolarmi ma non ci riuscii e posi lo sguardo sulla bambola.
Iniziai a ridere anch'io, una risata che mi avrebbe permesso di fuggire da quel terribile incubo, ma che non era emessa da me, anzi, era qualcosa di più interiore, qualcosa che forse doveva venire a galla da sempre ma che le mie emozioni lo avevano lasciato nella parte di me più ancestrale.
E ridevo, ridevo, ridevo.
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Il mio piccolo inferno
RandomEd ecco a voi il mio inferno, quello che io di più temo. Un viaggio tra quegli incubi che mi tormentano, mi rendono debole e frantumano la mia anima.