Uscita dal pullman il freddo le fece sentire come coltelli sulla pelle, stringendole un cerchio tremendo alla testa. Il suo piumino era rimasto sul sedile e non aveva intenzione di tornare dentro a prenderlo, non con Joe. Gli Dei solo sapevano cosa avesse in mente quel ragazzo. Si guardò attorno per identificare dove si trovasse ma nell'atmosfera buia e fumosa del luogo a malapena si distinguevano i bordi del pullman rovesciato. Tutti i meccanismi delle ruote erano esposti come un intreccio incomprensibile. Desiderò per un secondo essere stata figlia di Vulcano per capirci qualcosa e inventare un marchingegno per far ripartire il mezzo. Avrebbe potuto riportare indietro tutti i ragazzi in una volta. Ma per farlo doveva sopravvivere.
Si mise il coltello tra i denti e si strinse i lacci degli scarponcini. Poi si ricordò del telefono d'emergenza che sua mamma le aveva lasciato nello zaino. Subito affondò le mani nella tasca principale per recuperarlo, ma con sua amara sorpresa scoprì che l'impatto ne aveva frantumato lo schermo. Era inutilizzabile, e a pensarci bene, avrebbe avuto lo stesso valore del appiccicarsi un'enorme insegna luminosa alla schiena con su scritto: Ammazzatemi.
Da quel che riusciva a intravedere, si trovava in una specie di garage industriale o magazzino, le pareti erano troppo alte per vederne la fine e il pavimento era di cemento ruvido. Delle sagome allungate che sembravano bracci motorizzati, e strani trattori biforcuti, avrebbe scommesso più sul magazzino che sul garage, eppure vedeva anche altri mezzi, macchine, oltre al pullman. Ovunque aleggiava una foschia azzurrina e gelida come in un bosco d'inverno e si sentiva un fortissimo odore di gas, probabilmente lo stesso che era stato usato per addormentarli. Non riusciva a vedere altro, non un'uscita o una porta abbastanza vicina, e nessuno le assicurava che fosse una buona idea in ogni caso.
La paura le sfiorava la gola scoperta con dita di ghiaccio ma si costrinse a ignorarla. Nel momento in cui avesse ceduto sarebbe stata la fine. Strinse i denti e pensò a tutto quello che aveva imparato a Campo Giove. Catherine Gilligan, la nuova console, con la sua voce pesantemente marcata da un accento di Boston, dire che quando si è in difficoltà il lavoro di squadra è tutto. Si immaginò di chiedere a Catherine cosa si potesse fare in caso non ci fosse una squadra a cui chiedere aiuto, ma si rese conto che così non avrebbe avuto risposta.
Mise in ordine i problemi uno alla volta: il primo in assoluto era il freddo.
Escludendo di rientrare nel mezzo, si mise a pensare. La felpa che aveva addosso era calda, sì, ma non sufficiente contro il freddo che sentiva in quel momento. La temperatura era decisamente sotto zero o molto vicina ad esserlo. Tutti avevano portato le giacche sul pullman, ma poteva anche essere che qualcuno l'avesse lasciata in valigia. Fece il giro della carcassa spiaggiata di metallo seguendole il profilo con le punte delle dita, sperando che il bagagliaio di aprisse. Raggiunse il posteriore de mezzo e a tentoni, seguendo la luce pallida riflessa sulla fiancata in metallo, trovò la maniglia di plastica ruvida che avrebbe dovuto aprire il vano portabagagli. La afferrò con entrambe le mani e prima di girarla di guardò attorno. Non sembrava che ci fosse nessuno in arrivo e da dentro non proveniva nessuno suono. Immaginò che Joe avesse deciso di mantenere un basso profilo e aspettare i soccorsi.
"Stupido. Creperà di freddo là dentro".
Girò la maniglia con forza e il meccanismo all'interno cigolò dolorosamente, echeggiando poi all'interno della pancia di metallo vuota del pullmino. Dal lunotto posteriore MyKayla intravide un qualcosa che si muoveva e si sentì osservata. Immaginò che Joe stesse trovando il suo modus operandi molto divertente. Il vano si aprì e MyKayla estrasse la prima valigia che le capitò sotto mano. Un trolley di ultima generazione che sembrava grigio come tutto il resto in quella luce morta. Sperando che nessun altro avesse sentito il gemito del bagagliaio, si sbrigò a cercare le cerniere, ma le trovò bloccate dal lucchetto a combinazione incorporato nella valigia. Alzò gli occhi al cielo e riprese il pugnale in mano, maledicendo tra sé e sé l'intera situazione, l'olimpo e qualsiasi altra cosa esistesse. In un'altra occasione si sarebbe sentita in colpa a rubare così spudoratamente, ma non era il momento. Infilò la lama di piatto dietro al meccanismo di blocco e dopo un paio di strattoni questo saltò via. Da lì procedette ad aprire il resto della valigia. Ne rotolarono fuori un paio di flaconi cilindrici di shampoo o balsamo, e dei caricatori ingarbugliati. Affondò le mani negli effetti personali dello sconosciuto che la stava per salvare dal freddo, e ne estrasse un enorme maglione grigio che non esitò a infilarsi. Dentro la valigia trovò anche dei guanti senza dita, almeno tre cappellini e, con sua grande sorpresa, due bricchetti di succo non meglio identificato. Erano freddi e di certo in quel posto non avrebbero avuto bisogno di un frigorifero.
Si mise i guanti e il cappello, mise il succo nello zaino e si tirò su il cappuccio della felpa.
Forse per scaramanzia o per sospetto alzò lo sguardo un'ultima volta verso il lunotto posteriore. Joe era lì in piedi intento a mangiare quella che sembrava una barretta. Aveva addosso un piumino. La salutò con la mano, tutto contento. MyKayla alzò una mano guantata e ripose al saluto, pur stringendo il pugnale d'oro nell'altra ben visibile. Poi rimase di sasso: Joe fece un segno a qualcuno e un'altra testa spuntò vicino alla sua. Non la riconobbe ma non importava. Si era svegliato qualcun altro nel pullman. Joe dovette vedere il panico dipingersi sul suo volto, perché fu certa di vederlo ridere poi il suo viso divenne di nuovo serio. Sbatté il pugno libero contro il lunotto e con il viso scuro lo vide sillabare le parole: vattene via. Un altro paio d'occhi si accostò e MyKayla fu sicura che Joe aveva raccontato loro del pugnale, e probabilmente li aveva convinti tutti che era lei la causa della loro prigionia.
Un altro pugno si abbatté contro il lunotto. Un pugno decisamente arrabbiato.
MyKayla arretrò di un passo e strinse i pugni. Era scesa dal pullman carica dell'idea di poter eventualmente salvare tutti. Ora non ne era più così certa. Di sicuro voleva sopravvivere, poi ci avrebbe pensato a cosa fare di loro. Una parte di lei sapeva che non era colpa loro, dall'altra aveva ascoltato abbastanza audiolibri per sapere cosa succedeva alle menti umane in una situazione simile, in cui il male sembra ricadere su un capro espiatorio, designato da un capo carismatico. Strinse gli spallacci dello zaino e si voltò sentendo gli sguardi bruciarle la schiena. Non si voltò questa volta, lasciandosi alle spalle Joe e i suoi nuovi amici, la valigia sfasciata e il pullman. Davanti a lei si apriva un magazzino, o un hangar, o una rimessa di dimensioni infinite dispersa da qualche parte sul globo. Era nei guai e prima o poi chi li aveva messi lì sarebbe anche tornato a riprenderli ed era proprio una cosa che non ci teneva a vivere.
Con il pugnale alla mano e il cappuccio in testa procedette in linea dritta, certa che il suo sangue semidivino avrebbe fatto il suo dovere prima o poi, facendola cadere dritta dritta nelle braccia dei suoi nemici.
Si fermò dopo quasi cento metri, quasi di colpo. Sulla guancia, per la prima volta dopo svariate ore, un refolo d'aria. Si girò da dove lo sentiva provenire sulla sinistra. Dietro quello che sembrava uno spalaneve sventrato si intravedeva una lama di luce bianchiccia ed entrava quella che sembrava aria gelida. Subito annusò l'aria per cercare tracce del gas di prima, ma non sembravano essercene. Era aria aria, la stessa aria di cui era re incontrastato suo padre. Guardandosi attorno un'ultima volta si affrettò a raggiungere la porta e si mise in posizione di difesa mentre, il più nascosta possibile, cercò di guardare fuori.
La porta sembrava dare sull'esterno, su quello che, dal poco che vedeva, sembrava essere un piccolo cortile di passaggio tra l'edificio in cui si trovava a uno più piccolo con un comignolo fumante. Sulla neve c'erano molte impronte che collegavano la porta all'altro edificio, ma le stesse si stavano anche lentamente ricoprendo di neve. Non era passato nessuno di recente. Un cattivo e buon segno allo stesso tempo. L'edificio basso e allungato che si intravedeva aveva finestre piccole e coperte di cartone. Provò a sbirciare fuori un po' di più, per rendersi conto della collocazione di ogni cosa. Tutto poteva rivelarsi utile. Si fece coraggio e mise fuori del tutto la testa, tenendosi bassa, quasi accovacciata a terra. I suoi occhi, in lontananza intravidero quello che sembrava un enorme muro di ghiaccio azzurro e bianco, confuso nella neve che cadeva, ma comunque maestoso e gigantesco. La sola vista di quelle mura le fece gelare le ossa, le facevano male come se stessero per spezzarsi, un gelo innaturale. Non riuscì a fermare i denti dall'iniziare a battere violentemente, non si sa se dal freddo o dal terrore.
Qualsiasi cosa fosse, quello che vedeva non era un sogno.
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Odissea del Nord
De TodoA distanza di due anni dalla caduta di New Troy, grandi e piccole cose sono cambiate al Campo Mezzosangue: qualcuno si è innamorato, qualcun altro ha intrapreso la via del college, qualcun altro ancora ha deciso di assomigliare a Kurt Cobain, ma mor...